jueves, 7 de octubre de 2010

Il Nobel per la Letteratura assegnato a Mario Vargas LLosa

Lo scrittore peruviano - autore di capolavori come "La zia Julia e lo scribacchino" e "Il caporale Lituma sulle Ande" - e' stato premiato dall'Acccademia di Svezia "per la sua cartografia delle strutture del potere e per le acute immagini della resistenza, rivolta e sconfitta
dell'individuo".

Famoso per i suoi numerosi libri, inizia la sua carriera con "La ciudad y los perros" (1963, La città e i cani), ambientato in un collegio militare della capitale Lima, La casa verde (1966) e Conversación en la Catedral (1969, Conversazione nella "catedral"). Successivamente scrive Pantaleón y las visitadoras (1973, Pantaleón e le visitatrici) e La tia Julia y el escribedor (1977, La zia Julia e lo scribacchino).
Avvia anche una carriera politica, candidandosi senza successo alla presidenza del Perù, come principale antagonista di Alberto Fujimori.

viernes, 17 de septiembre de 2010

Le lezioni di Calvino oggi non bastano più

Ha saputo individuare i problemi della contemporaneità ma non indicare soluzioni. Per queste dobbiamo cercare altrove

Quando nella notte tra il 18 e il 19 settembre di venticinque anni fa Italo Calvino si spense nell'Ospedale di Siena, dopo che i medici avevano inutilmente tentato di salvarlo operandolo alla testa, lo scrittore ligure era arrivato quasi al culmine della sua popolarità e fama. In quei mesi era intento a redigere le sue Lezioni americane, da tenersi di lì a poco ad Harvard, il cui sottotitolo era «sei proposte per il prossimo millennio». In quelle lezioni si va dalla «leggerezza» alla «molteplicità», toccando l'esattezza, la rapidità e la visibilità. La sesta lezione sarebbe stata intitolata Consistency, coerenza. Calvino non ha fatto in tempo a scriverla, ma restano degli appunti, e si sa che si sarebbe riferita a un racconto di Melville, Bartleby.

Oggi che molte delle sue previsioni intellettuali, per quanto riguardanti in primis la letteratura, sembrano essersi avverate - la leggerezza è una delle parole passepartout del postmoderno -, forse la conferenza che ci sarebbe servita di più è quella sulla «coerenza». Bartleby, il personaggio della novella, è un impiegato di Wall Street; lavora presso un avvocato e trascrive atti giudiziari. Se non che, a un certo punto, smette di farlo, e oppone alle richieste del suo principale una frase: «Avrei preferenza di no». Un modo manierato per sottrarsi a ciò che gli è richiesto. Il racconto, che è diventato oggetto di commenti di tanti scrittori e filosofi (da Deleuze ad Agamben, da Borges a Perec), finisce tragicamente con Bartleby che si ritira su se stesso, ostinato, costringe l'avvocato a cambiare studio, resta lì, e infine messo in prigione muore d'inedia.

In questa lezione mancante si concentra tutta l'attualità e l'inattualità di Calvino, il suo appartenere allo stesso tempo al XX secolo e al XXI: un autore della transizione. Il narratore sorgivo del Sentiero dei nidi di ragno e quello riflessivo di La giornata di uno scrutatore, nonché di Palomar, è stato uno degli scrittori per cui all'idea di letteratura si accompagnava anche quella di un impegno per creare una società più giusta. Pasolini, Sciascia, Volponi, Morante, ma anche Manganelli, sono stati antifascisti, iscritti o simpatizzanti del Partito comunista, in altre parole degli intellettuali-scrittori (non scrittori-intellettuali), che hanno fatto della letteratura uno dei punti fondamentali della loro attività. Narratori, certo, ma anche saggisti, polemisti, presenti sui giornali, nelle riviste, dediti alla politica in senso forte. Prima intellettuali e poi letterati, senza piegare la letteratura alle ragioni di partito. Ma pochi anni prima che Calvino morisse, qualcosa è cambiato di colpo.

La letteratura, come questi scrittori la concepivano, è finita. Nasceva qualcosa di diverso sul piano sociale, e dunque anche letterario. A spiegarlo è un altro scrittore, forse l'unico erede di Calvino, e proprio per questo divergente da lui: Gianni Celati. È Celati a far conoscere a Calvino la novella di Melville, e anche Wakefield, il racconto breve di Hawthorne, altro riferimento di Consistency.

In entrambe le storie ci sono due personaggi che si sottraggono alla relazione sociale - lavorativa in Bartleby e famigliare in Wakefield -, alle convenzioni, in nome di una coerenza che trae il proprio fondamento da un disincanto che si è installato nella vita sociale. Con la morte di Moro e l'inizio degli anni Ottanta inizia il cosiddetto «riflusso», va in crisi la politica tradizionale, c'è la fuga dall'impegno. Finisce il mondo di cui Calvino era uno degli interpreti più ariosi, leggeri, e insieme intensi. La società umana, quella italiana, non sa più bene su cosa si fondi il legame che tiene insieme gli individui. Calvino sta su questa soglia e per molti aspetti non sa più che pesci pigliare, come si vede molto bene nei racconti di Palomar. La sua crisi era già iniziata, e si annunciava lunga e complessa.

Forse non aveva più, nonostante la sua indubbia intelligenza gli strumenti adatti per interpretare il cambiamento. Per questo si era rivolto nel 1968 a Celati, il suo Marco Polo, il viaggiatore, mentre lui retrocedeva al ruolo di Kublai Kan, il vecchio imperatore immobile delle Città invisibili, il suo capolavoro, ma anche il suo punto più alto di scacco. Tuttavia Celati non era bastato, e neppure più i vecchi e nuovi maestri parigini. All'inizio degli anni Ottanta Calvino era un intellettuale-scrittore in panne, il cui motore, perfetto e oliato, girava a vuoto. Era sospeso nel vuoto della fine del XX secolo. Somigliava sempre più a Bartleby, e come lui incarnava un lutto; e l'accentuarsi del suo manierismo letterario era anche la conseguenza del suo «avrei preferenza di no».

Ora non sappiamo cosa avrebbe scritto riguardo alla «coerenza», però un'ipotesi, seguendo il suo Marco Polo, si può formulare. Bartleby, ha scritto Celati, è la figura che pone il problema delle sacche di estraneità che si formano all'interno della vita sociale. Problema che nasce con la nascita delle grandi masse anonime nella vita urbana, «dove non si possono più nascondere le distanze assolute che separano gli individui». La solitudine è l'esperienza fondamentale della contemporaneità su cui s'innestano, pur nella loro diversità, sia il fascismo novecentesco sia il Grande Fratello. Calvino sta al di qua di questa soglia, indica il problema, ma non fornisce soluzioni. Un grande scrittore, senza dubbio, un grande moralista, e insieme un agilissimo saggista. Ma per andare avanti non basta più, bisogna cercare altrove. Dopo Calvino.

MARCO BELPOLITI

jueves, 16 de septiembre de 2010

Fotografo di Luther King era una spia

Rivelazione shock da Memphis: l'autore dei celebri scatti sulle marce per i diritti civili, afroamericano e amico del leader, lavorava per l'Fbi

La doppiezza privata di un uomo svuota anche le sue opere? Le immagini, le emozioni, le idee che costruisce intorno a una passione, a una causa, e che ispirano milioni di altri uomini, si svuotano se questo uomo poi vende, tradisce, in privato, quella stessa causa?

Oppure c'è una netta distanza tra il prodotto e il suo stesso creatore, una sorta di filo del rasoio della coerenza, un varco che è meglio non attraversare? Insomma può un debole uomo essere anche un grande uomo, un eroe, un artista – e se sì, come lo si giudica? Con quale lato della sua vita?

La storia è piena di queste domande. La storia del secolo alle nostre spalle, in particolare, con le sue forti ideologie e i suoi milioni di morti. Secolo di ambiguità da cui davvero pochi sono emersi puri. Il premio Nobel Günter Grass, con la sua gloriosa scrittura e la sua tardiva ammissione di aver militato nelle Waffen-SS, è ancora lì nell'anticamera del nostro scontento, nell'incertezza di un giudizio che lacera il nostro bisogno di sicurezza. Ed ecco che gli archivi, questi cerberi della verità fattuale, vomitano una nuova sconcertante versione. Intaccando una storia finora considerata tra le più perfette, le più sante, del nostro passato recente: il movimento per i diritti civili in America.

Il quotidiano The Commercial Appeal, autorevole giornale di Memphis, Tennessee, ha trovato le prove che Ernest C. Withers, fotografo e amico di Martin Luther King, celebre e celebrato biografo della lotta dei neri americani, era in realtà una spia dell'Fbi, identificato dal Bureau come «confidential informant number ME 338-R». Per ora ci sono 360 pagine che raccontano la doppia storia di quest'uomo. Ma molte altre - secondo il giornale, che ha ottenuto gli atti attraverso il Freedom of Information Act con una richiesta del 2007, dopo la morte del celebre fotografo - sono ancora coperte da segreto. A leggere cinicamente il racconto del quotidiano, non si può che elogiare l'abilità dell'Fbi: se c'era un uomo che aveva accesso a tutto e a tutti, dentro la comunità nera di quegli anni, questo era proprio lui, Ernest Withers.

Era lì, con il reverendo King, nelle ultime ore della sua vita, e arrivò per primo a fotografarlo, unico giornalista che ebbe accesso alla stanza dove il leader dei diritti civili giaceva riverso nel sangue. Lo stesso Withers avrebbe raccontato come, dopo lo sparo, arrivò nella stanza 306 del motel Lorraine e cominciò scattare, mentre la polizia teneva lontani tutti gli altri. Intorno a King morto ci sono Bernard Lee, con la cravatta allentata, il giovanissimo Andrew Young che segnala con la mano di stare tutti calmi, e Ben Hooks e Harold Middlebrook che guardano nel vuoto. A terra c'è la borsa con i documenti di Luther King. È il 4 aprile 1968. Il rapporto dell'Fbi letto dal quotidiano porta la data di pochi giorni dopo quello stesso mese, quello stesso anno, il 10 aprile 1968.

Nelle pagine c'è la prova del peggiore dei tradimenti: il fotografo che seguiva passo per passo il reverendo aveva riportato al Bureau ogni minuto delle attività del leader fino al suo assassinio, e anche dopo. Withers racconta agli agenti del governo americano dell'incontro che King aveva avuto con militanti neri sulla lista dei sospetti dell'Fbi, e dopo l'uccisione racconterà a quegli stessi agenti tutti i dettagli del funerale. Il suo lavoro continuerà fino almeno al 1970, e sarà accreditato dal Bureau come rilevante nell'identificare e smantellare il lavoro dei gruppi di neri più radicali che alla fine degli anni Sessanta cominciarono a sfidare le tattiche sociali e pacifiste del movimento dei diritti civili.

I dettagli del tradimento sono tanti. Ma molte di più sono ora le domande che questo tradimento ha suscitato. Perché lo fece? Per soldi, dicono alcuni – l'uomo aveva molti figli e pochi mezzi. C'è chi dice che forse il suo fu il cedimento a un ricatto: da giovane pare fosse stato coinvolto in una vicenda di illegalità che gli venne poi perdonata.

Ma nessuna di queste ragioni davvero spiega nulla. Forse la radice di questa ambiguità va ricercata nel clima di quegli anni, che certo non furono né semplici né lineari come oggi li preferisce ricordare la versione ufficiale. La comunità nera era profondamente divisa - negli obiettivi, nei metodi e, anche, nelle ambizioni. Martin Luther King fece un miracolo nell'unificare un movimento, e il destino successivo del gruppo che per un breve periodo si formò intorno a lui è la dimostrazione a posteriori delle diversità di visioni che sotto la guida di King continuavano a scontrarsi.

In questo senso, Withers è forse oggi il caso più clamoroso. Ma certo non è stato l'unico. La storia del movimento per i diritti civili ha un lato oscuro, come oscuro è il lato di molti episodi non del tutto spiegati della storia degli Usa. La scoperta dell'attività del fotografo rilancia molte domande che forse sono state troppo spesso lasciate senza risposte. Non è un caso che il giornalista del quotidiano The Commercial Appeal abbia cominciato la sua ricerca sulla base delle teorie del complotto che da sempre circondano la morte di King. Una di queste teorie fu proposta proprio dall'uomo che lo uccise, James Earl Ray, che continuò a chiedere all'opinione pubblica Americana perché la famosa sorveglianza con cui l'Fbi seguiva King fu improvvisamente sospesa proprio in quell'aprile del 1968.

La comunità nera si domanda cosa fare ora di questo eroe. Andrew Young ieri si è espresso con pena e moderazione su di lui, dicendo che i suoi errori non cambieranno il valore di quello che ha fatto.

Ma l'assoluzione non basta, e non consola. Soprattutto se si guarda oltre la vicenda e si pensa all'oggi. Quanti Ernest Withers ci sono, in questo momento, in questa epoca di terrorismo, in circolazione negli Stati Uniti e nel mondo?

Lucia Annunziata

domingo, 29 de agosto de 2010

"La nostra Disneyland terra di famiglie inquiete"

+ A me neanche piacciono i pirati SIMONE LAUDIERO
+ Dentro i confini del parco SIMONA SPARACO
+ Lo spirito giusto LUCA RICCI
+ Perla EMMANUELE BIANCO
+ Facciamo testa o croce CARLA D'ALESSIO




Cinque giovani scrittori della Scuola Holden reinventano la patria di Topolino. Tema ricorrente i contrasti tra padri e figli e il tentativo di ricomporli nell'oasi di fantasia e creatività




«Nananaaaa na na na na»: come capita in tutte le gite scolastiche, i partecipanti piuttosto speciali al viaggio a Disneyland che andiamo a raccontarvi a un certo punto hanno cominciato a usare, oltre a un lessico comune, anche una colonna sonora collettiva. Nel caso «la canzoncina It's a Small World», spiega uno dei cinque, Simone Laudiero, «che nel parco viene cantata non mi ricordo più se da un gruppo di uccellini, di scoiattoli o di soldatini di piombo». Piano piano, quel «na na na» è entrato in testa a tutti: contemporaneamente, le difese di chi all'inizio si mostrava scettico cadevano e il balsamo zuccherino della regressione infantile otteneva il suo infallibile effetto. L'idea che è venuta alla Disney è originale e anche un po' perversa. Prendi cinque scrittori italiani emergenti, quattro usciti dalla Scuola Holden e uno (Luca Ricci) che in ambito Holden lavora, e mandali nel parco di Topolino a Parigi per vedere l'effetto che fa. Poi mettili tutti a scrivere dei racconti, lasciandoli liberi di inventare quel che gli pare e mantenendo soltanto il vincolo della location. Titolo dell'operazione: «Raccontami un sogno».

Motivo della scelta dei cinque novissimi: la celebrazione del «Festival della nuova generazione», per marcare l'arrivo a Disneyland Paris, accanto ai characters storici, di personaggi più recenti e perfino in 3 D, tipo Buzz di Toy Story, Remy di Ratatouille e Tiana della Principessa e il ranocchio.I cinque frutti della gita scolastica li abbiamo qui: si chiamano Perla di Emmanuele Bianco, Dentro i confini del parco di Simona Sparaco, A me neanche piacciono i pirati di Simone Laudiero, Lo spirito giusto di Luca Ricci, Facciamo testa o croce di Carla D'Alessio. Qualcuno (Laudiero) gioca il registro del dietro le quinte, un altro (Luca Ricci) prende spunto dal paradigma disneyano dell'animale antropomorfo per costruire una puntuta favola darwiniana, dove Cip e Ciop non sono esattamente i batuffoli iperattivi che fanno impazzire Paperino, molti si trovano a mettere in scena una certa distanza emotiva fra bambini e adulti, magari con l'happy ending (Carla D'Alessio) magari no (Sparaco): tutti si dicono toccati dall'esperienza, forse perfino frastornati; può perfino essere che qualcuno di quei racconti finisca per essere il nucleo di un romanzo che compreremo fra due o tre anni in libreria.

Sparaco praticamente giocava in casa: «Del mondo Disney sono una fanatica, quando mi hanno fatto la proposta non ci ho pensato un minuto. Ero già stata nei parchi di Burbank, di Orlando e di Hong Kong, e naturalmente anche a quello di Parigi. Però non ci avevo mai dormito dentro, e invece quello fa la differenza, perché un conto è starci un pomeriggio e un altro tre giorni: il bello è perdere il senso della realtà». L'albergo che l'ha ospitata, l'Hotel Cheyenne in stile western, è entrato infatti nel suo racconto, porte da saloon, mezzogiorni di fuoco e tutto; mentre molti dei suoi compagni hanno subito il fascino del ristorante della principesse, praticamente un'eden per bamboline sugli otto anni.Per un'entusiasta, uno che all'inizio mostrava le sue riserve, ma che poi ha trovato una chiave interpretativa. Luca Ricci:«Se ti trovi in un mondo tutto artificiale, sostitutivo della realtà, la sfida sta nell'andare a pescare gli elementi di squallore che rimangono nel quadro: i bidoni della spazzatura, il bambino che piange.

Quando mi sono messo a scrivere, volevo mantenere l'equilibrio, essere leggero ma anche un po' cattivo». Raccontano i cinque che il momento clou è stato l'incontro con Laurent Cayeula, un signore sui 35 anni architetto e con esperienze di teatro, che alla Disney lavora come imagineer, e spiegare che cosa vuol dire è poi arrivare al nocciolo della faccenda, perché gli imagineer sono quelli che prendono un personaggio o un film Disney e li trasformano in attrazione. «Un esempio perfetto di storytelling», lo definisce Sparaco, e come altro chiamare il processo per cui «se decidi di mettere sulla Main Street un negozio di caramelle devi ricostruirti il personaggio del caramellaio, la sua storia, le sue motivazioni»? Roba che in Europa neanche ci sogniamo. «E questo è niente», aggiunge Ricci. «Lo sa che il parco è costruito in modo che si percepisca, dall'entrata al luogo dove sono le attrazioni, un rimpicciolimento in scala? Roba dell'altro mondo». Letteralmente. Da quando sono tornati, i cinque hanno cominciato a sognare in technicolor: forse anche i famosi elefanti di Dumbo, molto rosa e molto psichedelici.

Egle Santolini

martes, 24 de agosto de 2010

a chiave dell'evoluzione della specie? Lo spazio, la competizione non c'entra

Non è la competizione, ma lo spazio disponibile la chiave per l'evoluzione della specie e l'aumento della biodiversità.
È questo l'assunto chiave di uno studio apparso sul prestigioso bimestrale della Royal Society “Biology Letters”, e che sembra destinato a scuotere alle fondamenta la visione darwiniana della sopravvivenza del più adatto.

Un team di ricercatori dell'Università di Bristol ha utilizzato i resti fossilizzati di mammiferi, rettili, uccelli e altri animali per dimostrare una correlazione fra lo spazio vitale disponibile per ciascuna specie e il grado di biodiversità presente in una data area. Sono state analizzate 840 famiglie di fossili, in rappresentanza di un ampio spettro geografico, cronologico ed ecologico. Secondo gli studiosi, coordinati dallo studente di dottorato Sarda Sahney, i grandi passi avanti nell'evoluzione, si verificano quando gli animali si spostano in aree non occupate da altre creature.

«Per esempio – ha spiegato alla Bbc il professor Mike Benton, coautore dello studio – anche se gli esseri umani hanno vissuto accanto ai dinosauri per 60 milioni di anni, non sono stati in grado di avere la meglio su questi rettili. Ma quando i dinosauri si sono estinti, i mammiferi hanno riempito in fretta la nicchia ecologica rimasta libera e oggi essi dominano la terra». I ricercatori fanno anche l'esempio dei volatili: quando hanno cominciato a solcare i cieli, si sono guadagnati l'accesso a una vasta area in cui prosperare ed evolversi senza incontrare ostacoli.

Gli scienziati inglesi non negano tuttavia del tutto l'importanza della competizione nell'evoluzione della biodiversità, anche se ritengono che essa abbia un influsso soltanto indiretto. «Anche se la storia dei tetrapodi non presenta prove di competizione diretta – scrivono infatti - ce ne sono invece di competizione nel senso di sostituzione incombente; gruppi consolidati possono escludere i concorrenti, anche se questi posseggono dei vantaggi in termini di adattamento, a meno che i primi non vengono rimossi da una grande calamità naturale, come un'estinzione di massa, nel qual caso la maggiore adattabilità permette al gruppo invasore di occupare l'area prima che i vecchi occupanti possano riprendersi».

Naturalmente, la teoria del gruppo di Bristol ha suscitato immediato interesse, ma anche alcune perplessità. I dati raccolti dagli studiosi possono essere infatti interpretati anche in altri modi. «Da cosa deriva la spinta a occupare nuove porzioni di spazio ecologico, se non dalla necessità di evitare la competizione con le specie che già occupando un dato luogo? – ha sottolineato il professor Stephen Stearns dell'Università di Yale».
Federico Guerrini

sábado, 21 de agosto de 2010

Giovani scrittori imparate dall'America

La scrittrice Catherine E. Morgan

Il dibattito sui nuovi autori italiani: molti di loro sono velleitari. Oltreoceano c'è chi come la Morgan dimostra un altro spessore
E' giusto, nel vastissimo mare dei romanzi di nuovi autori che negli ultimi anni appesantiscono i banchi dei librai, cercare di fare il punto della situazione, di capirci qualcosa soprattutto da un punto di vista letterario, in un tempo che sembra privilegiare solo i numeri e le vendite. Il supplemento domenicale del Sole 24 Ore ha interpellato in questo senso vari critici, mettendo in moto un'idea di riflessione necessaria (sull'argomento è intervenuto anche Cordelli sul Corriere). Iniziative come queste sono utili, purché non si arrivi (come oggi si tende a fare da più parti) a stilare classifiche, che sono in fondo la negazione della critica e la brutta copia delle classifiche di vendita. Ho apprezzato anche l'intervento di Andrea Cortellessa, che sottolineava giustamente la maggiore vitalità (e direi libertà) della poesia giovane rispetto alla narrativa under 40, anche se le sue scelte coincidono solo in parte con le mie e se penso che definire la Biagini caposcuola sia piuttosto improprio.

Venendo ai narratori, devo dire che la ricerca ossessiva della novità e del talento giovanissimo ha contribuito a rendere più caotico il panorama complessivo. Tanto che oggi le motivazioni che muovono un narratore non sembrano più, essenzialmente, quelle di praticare un'arte, ma di trovare il modo di pervenire a un generico successo. Molte, insomma, le presenze velleitarie o acerbe, molti i romanzi che sanno più di sociologia spicciola che di letteratura e dunque di poesia e ricerca di scrittura e stile. Certo molto mi sfugge, visto che nelle tantissime uscite distribuite in libreria è difficile orientarsi, a meno di non leggere nient'altro; e dunque sono certo di aver perso molto del meglio. Ma è anche vero che la frequente nascita di «grandi stelle» rende un po' troppo funzionale il paesaggio della nostra narrativa al sistema del varietà totale nel quale quotidianamente siamo immersi.

Non certo per snobismo, ma per semplice curiosità e per una felice combinazione, mi è capitato di leggere in questi giorni estivi l'opera prima di una scrittrice americana nata, se non sbaglio (la notizia biografica del libro non indica l'età), nel 1976. Si tratta di Catherine E. Morgan, autrice di Tutti i viventi (Einaudi, p.204, € 18,50), romanzo molto bene accolto e premiato negli Stati Uniti, e che pure nella semplicità della sua storia, e nella sua linearità, mi è parso un libro di qualità insolita e di già evidente maturità espressiva. L'autrice non cerca scorciatoie o astuzie persuasive. Racconta di due giovani nel Kentucky, che si mettono assieme dopo una tragedia che ha cancellata la famiglia di lui, Orren, che è un ruvido contadino intenzionato a vivere nella fedeltà alle origini, nella continuità con il lascito familiare, mentre la ragazza, Aloma, è più vibrante e sensibile, amante della musica e pianista.

Il lettore viene coinvolto da una scrittrice che riesce a far comprendere, in ogni dettaglio, l'importanza decisiva, nell'esperienza umana, del rapporto diretto e fisico con il reale; rapporto di cui oggi sempre più siamo spossessati. C'è qualcosa di poeticamente ruvido e concreto nelle sue descrizioni, nel suo modo di rappresentare un mondo periferico e quasi astorico. Un mondo, quello del cuore degli Stati Uniti, che ha dato molta grande narrativa. la Morgan ha certo ben presenti Carson McCullers e Flannery O'Connor. Ma non può certo non aver amato l'immenso William Faulkner, o anche il più vicino Cormac McCarthy. Da un lato, nel suo racconto, il contadino legatissimo alla terra, dall'altro la ragazza che ama l'arte, che si realizza nella gioia del contatto con una tastiera di pianoforte e che troverà anche il fascino di una spinta ideale nella figura di un giovane prete di campagna. Ma, appunto, le due diverse realtà di Orren e Aloma sentono il bisogno oscuro di relazionarsi, di coesistere e sovrapporsi, alimentandosi reciprocamente.

Io credo che questa scrittrice possa costituire un esempio molto interessante, non tanto come modello possibile a cui rifarsi. Quanto per la dimostrazione che mi sembra dare di una ricerca che non può non essere condivisa da un vero scrittore: quella della paziente costruzione di un'opera nella verità personale, nella forza dello stile, nella tenace pratica di un'arte straordinaria come è quella del narrare. Considerando pubblicità e successo immediato come puri accidenti, come conseguenze marginali, e dunque del tutto secondarie.
Maurizio Cucchi

domingo, 30 de mayo de 2010

Biennale Danza 2010: “Ossigeno”, piedi fasciati e “belle figure”

«Oxygen», ossigeno dà il via alla Biennale Danza. Come da tradizione, ormai, il battesimo del Festival viene impartito dal suo direttore, Ismael Ivo, che apre il sipario con i giovani talenti dell’Arsenale. Ventidue giovani scelti e addestrati nel cuore della Biennale nel segno del contemporaneo. Pronti a tendere muscoli e carne in una drammaturgia di corpo e respiro. Bianco-velata, ondeggiante sulla musica rarefatta di Arvo Part (dal vivo, con l’Orchestra di Padova e del Veneto diretta da Maffeo Scarpis), a sequenze alternate. Un assaggio della giovane generazione di danzatori in crescita, più che un’opera vera e propria. Un preludio a quello che è invece il vero focus della Biennale 2010, concentrato sulla danza canadese (e sull’Australia nella seconda parte).
Il primo artista canadese a scendere in palco, in realtà è cinese: Wen Wei Wang. Ma da anni risiede a Vancouver dove ha fondato la sua compagnia.

Danza occidentalizzata la sua, con la quale ripescare tracce di memoria cinesi. “Unbound” si ispira alla crudele tradizione di fasciare i piedi delle bambine cinesi per impedirne la crescita. Il piede-bonsai concedeva un’andatura ondulata agli occhi degli astanti (e atroci dolori a coloro che ve ne erano state costrette). Wen Wei trasforma quell’immaginario in un catalogo di passerelle per umani - uomini e donne - intenti a scalare vertiginose scarpe rosse, che incedono nello spazio intrecciando relazioni incerte con l’altro. Districandosi in trii ambigui (coreograficamente molto ben costruiti) e assoli sgomenti. Troppo laccato per essere drammatico, “Unbound” si staglia nel buio con l’interessante mosaico di luci di James Proudfoot. Una selva di corpi dove non ci si perde d’emozione.

Il secondo appuntamento con il Canada è con Les Grands Ballets Canadiens de Montréal. VIDEO Compagnia di vetrina, e di gran lustro, è diretta con mano elegante dal macedone Gradimir Pankov, nel segno di un contemporaneo che sa già di classico. Per esempio, quando prende in prestito il repertorio di Jiri Kylian. “Bella figura”, ispirata all’armonia dell’arte italiana, accende la serata di squarci di bellezza mozzafiato. La coreografia risale al 1995 ma solo anagraficamente: è un fuoco di invenzioni coreografiche, un’allegria di scherzi di danza. Impeccabile nel disegno, musicalissima nella sua tessitura, piena di sorprese. Un capolavoro.

Cade, invece, nell’irresistibile attrazione da capolavoro, il belga Stijn Celis, che firma una nuova (2009) versione de “Le Sacre du Printemps”. Da quando, nel lontano 1913, l’iconoclastico balletto di Nijinskij e la “barbarica” musica di Stravinsky sconvolsero le platee di Parigi, qualche coreografo si prende la briga di rivisitarlo. Celis ha buone doti, ma non ha un’ispirazione pari a quella di Mats Ek nel ri-creare una Giselle contemporanea, né la felice inventiva di Matthew Bourne e del suo “Lago dei cigni”. Così Celis resta solo offuscato dalla memoria dell’originale (e di versioni più forti ed efficaci), nonostante abbia il raro talento di amministrare le masse dei ballerini. Il suo “Sacre” ridimensiona un rito tribale e feroce a scossoni emotivi di ragazzi e ragazze. Riti del quotidiano, cerimonie di transito dal gruppo alla coppia, dall’individuo alla massa. Qualche freschezza, poco dramma.
Svettante la compagnia, affiatata, piena di ottimi elementi, in grado di virare dal gesto apparentemente informale alla stilizzazione elegante. Una meraviglia.

Rossella Battisti

sábado, 22 de mayo de 2010

Giuseppe Tornatore ha presieduto la giuria del Campiello

Campiello, pure Lerner in cinquina Unanimità della Giuria su Pennacchi

per "Canale Mussolini"


Tornatore: "Anno entusiasmante"



La giuria dei letterati ha scelto oggi la cinquina della XLVIII edizione del Premio Campiello, con il risultato mai visto prima dell’unanimità - 11 voti su 11 giurati - per l’opera "Canale Mussolini" di Antonio Pennacchi edito da Mondadori.
Nella cinquina sono rientrati anche "Scintille" di Gad Lerner (Feltrinelli),
"Le perfezioni provvisorie" di Gianrico Carofiglio (Sellerio),
"Milano è una selva oscura" di Laura Pariani (Einaudi)
e "Accabadora" di Michela Murgia (Einaudi). "Acciaio" di Silvia Avallone edito da Rizzoli è stato selezionato come opera prima.

«È stata un’annata entusiasmante, di grande energia creativa» ha detto il regista Giuseppe Tornatore dopo la selezione della cinquina del Campiello. «Ha vinto la fiducia nella scrittura come strumento di recupero e riconquista del nostro passato in funzione di una più profonda consapevolezza del presente e soprattutto del nostro futuro». Per Tornatore, «oltre ai cinque racconti entrati in cinquina, ci sono tantissime altre opere veramente straordinarie, tant’è che avevo provocatoriamente proposto alla Fondazione, di passare, quest’anno, ad una decina». «Molti libri straordinari sono rimasti fuori - ha aggiunto - molti di questi si prestano ad una trasposizione cinematografica».

Il regista ha espresso soddisfazione per il fatto che la selezione sia uscita subito, senza «quella sorta di baruffa pubblica che nasce quando una giuria non è d’accordo». Di "Canale Mussolini" di Pennacchi, che ha ricevuto 11 voti su 11 giurati, Tornatore ha detto che «è un’opera importantissima: un grande romanzo epico, un grande racconto di cronaca storica e anche un saggio antropologico, tutto tessuto con la stessa tensione». «Sono contento che tutta la giuria l’abbia segnalato - ha concluso - se lo merita».

Quanto ad "Acciaio" di Silvia Avallone, per Tornatore «è un romanzo di molteplici transizioni che vanno dall’Italia tradizionale alla moderna, dal proletariato alla borghesia, dalla gregarietà femminile all’emancipazione, dall’adolescenza alla giovinezza».

jueves, 20 de mayo de 2010

Parigi, furto d'arte da 500 milioni Rubati quadri di Picasso e Matisse

Ladri al museo di arte moderna Sottratti cinque capolavori Per entrare nei locali è bastato rompere un vetro Non è manco scattato l'allarme: il colpaccio scoperto stamane
PARIGI

Cinque capolavori sono stati rubati dal museo nazionale di arte moderna di Parigi, nel 16° arrondissement. I quadri trafugati sono firmati da grandi maestri della pittura mondiale: tele di Picasso, Matisse, Modigliani, Braque e Leger. Da capogiro il valore complessivo del bottino, che la polizia stima in 500 milioni di euro. La Brigata repressione del banditismo (Brb) è stata incaricata delle indagini.

Il quadro di Modigliani rubato stanotte nel clamoroso furto a Parigi è "Donna con ventaglio". Nelle mani dei ladri anche "Le pigeon aux petits pois" di Pablo Picasso, "La pastorale" di Henri Matisse, "L’Olivier pres de l’Estaque" di Georges Braque e "Natura morta con candelabri" di Fernand Leger. Pare si sia trattato di un banale furto con scasso, scoperto per di più solo stamane alle 7: evidentemente non c'era manco un allarme. Per accedere all’interno dei locali i ladri hanno rotto un vetro e tagliato un lucchetto che chiudeva una grata.

«È stupido rubare quadri così, si tratta di imbecilli e basta» è il commento di Pierre Cornette de Saint-Cyr. E' il commissario delle esposizioni del Palais de Tokyo, l’edificio parigino destinato all’arte contemporanea in cui sorge il Museo d’Arte Moderna della Città di Parigi che ha subito il furto di stanotte. «Con quadri del genere non ci si può fare niente - ha detto Cornette de Saint-Cyr -: tutti sono già al corrente, i siti Internet sono pieni di notizie e immagini. Nessuno può pensare di vendere questi quadri, per questo dico che è stupido rubarli. A meno che non si voglia fare un ricatto alle assicurazioni. Ma io sono convinto che li ritroveremo. Con quadri del genere è così: è successo anche con L’Urlo di Munch».

I furti di quadri di grandi maestri avvengono regolarmente, sottolineano i media francesi, ricordando che nel dicembre scorso era stato rubato un Degas dal Museo Cantini di Marsiglia, mentre a gennaio avevano preso il volo, da una proprietà di La Cadière d’Azur nella regione di Var, una trentina di opere, tra le quali anche un Picasso.

viernes, 7 de mayo de 2010

Michele Rak: «Gialli e noir non valgono più. Ora ci sono Murder e Pseudocronie»

Genius Loci, indagine sul Fantastico
di Roberto Arduinitutti gli articoli dell'autore Un convegno all'università Tor Vergata di Roma ridefinisce i confini della letteratura di genere. Ne esplora vizi e virtù, ne spiega l'utilizzo da parte della tv, ma soprattutto, testimonia come si tratti dei libri più letti in Italia.

Le altre relazioni
Letteratura di genere è viva e in espansione. Anzi, no. C'è il boom soltanto di alcuni generi, come il “giallo” e il “rosa”. Ancora meglio, non ci sono più cortili, niente recisioni, ma solo contaminazioni e soprattutto elementi dominanti. Insomma, i non ci sono più i generi, ma solo diverse tipologie di pubblico, i “target” a cui puntano le case editrici. Se ne è parlato, e molto approfonditamente, al convegno “Genius Loci 2010. Il genere a Roma oggi: il Giallo e il Nero, la Fantascienza e il Fantastico nella produzione multimediale”, organizzato nella facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Roma Tor Vergata. Divisa in due sessioni, una più teorica, l'altra più pratica, con la presenza di molti scrittori, riuniti da Massimo Mongai, il convegno ha presentato molte novità. La prima è proprio questa: non esistono più i generi. O meglio, si stanno evolvendo in nuove categorie.

Si è trattato di una sessione dedicata tutta al mondo del libro in Italia, che ha restituito un quadro piuttosto completo della situazione, dai dati sulla lettura al mercato editoriale, dalla definizione dei romanzi fino agli adattamenti letterari per la televisione. Motore ispiratore degli studi è stato l'Osservatorio permanente europeo sulla lettura dell'Università di Siena, diretto da Michele Rak, che da anni si impegna a diffondere dati reali sulla lettura, sui cambiamenti di un mondo come quello dei libri che è in continua evoluzione, soggetta anche a “mutazioni genetiche”, come il rapporto che ha con altre finzioni, il cinema, la radio, internet e la televisione.

Proprio a quest'ultima è stato dedicato lo studio di Walter Ingrassia sulle “Quantità, generi e tendenze dell’adattamento letterario per la televisione”. Si scopre così che, da circa dieci anni a questa parte, le tv generaliste hanno pescato a piene mani dalla letteratura di genere. Soprattutto, la Rai si è impegnata in questo senso, privilegiando soprattutto storie tratte da libri “giallo-noir”, ma anche le reti private si sono date da fare, tanto che negli ultimi anni anche la piattaforma satellitare Sky ha iniziato a produrre fiction in proprio, traendola da recenti romanzi di scrittori italiani.

Se la tv si è accorta della letteratura di genere, ancor di più e ancora prima hanno fatto i lettori. Tutti questi generi, definiti per anni “sottogeneri”, visti con una certa diffidenza degli ambienti intellettuali, rappresentano oggi la maggior parte delle letture del pubblico italiano (solo i lettori di gialli e noir rappresentano il 27% di quelli totali) e vantano un pubblico di fedelissimi che comprano fino a 20 libri l'anno contro i 3 circa di media delle altre categorie. Per non parlare del genere definito “rosa”, che rappresenta un unicum del panorama italiano.

«Si tratta di lettori abbastanza trasversali», spiega Francesca Vannucchi, docente di Sociologia della comunicazione culturale, nel suo intervento sulla “Circolazione in rete della letteratura. Usi e consumi”. «Soprattutto per gialli e noir ormai si tratta di lettori che sono sia uomini che donne, di tutte le fasce d'età, sia giovani che anziani, che anzi rappresentano un bacino di fedelissimi». Il dato ancor più interessante è poi scoprire che questo tipo di lettori non legge solo letteratura di genere. «Sì, i lettori che amano questi generi sono anche forti consumatori di narrativa italiana e straniera, e questo anche riabilita le letteratura di genere, considerata un tempo “di serie b”». Seguendo Vannucchi si vede come i generi Fantasy e horror appassionano soprattutto lettori adolescenti, che però leggono tranquillamente fantascienza, noir e gialli senza interruzione, e rappresentano il 4,8% dei lettori totali. Sono lettori interessati anche al mondo delle nuove tecnologie e ai nuovi linguaggi. Sono inoltre molto aumentati nel corso degli ultimi dieci anni.

La “letteratura rosa” è un caso particolare, ma molto interessante. Pur essendo appena il 6% dei lettori totali, sono soprattutto donne, giovani e anziane, che leggono anche diversi libri al mese, oltre i venti libri l'anno. «Anche tra loro c'è un grande interesse per la narrativa italiana e straniera. Non ci sono preclusioni», conclude Vannucchi.

sábado, 24 de abril de 2010

Il Sole al microscopio

Si chiama Solar Dinamic Observatory (Sdo) ed è stato inviato nello spazio a febbraio scorso dalla Nasa, l’ente spaziale americano, per studiare i processi dinamici del Sole.


Alcune immagini inviate dalla sonda in queste ore mostrano dettagli mai visti prima del materiale che fuoriesce dal Sole e delle macchie solari e mostrano immagini molto ravvicinate dell’attività sulla superficie solare. “Queste immagini – ha detto Richard Fisher, direttore della divisione di Eliofisica alla Nasa – mostrano una dinamica che non avevo mai visto in 40 anni di ricerca sul Sole”.
Sdo, durante la sua missione che durerà 5 anni, esaminerà il campo magnetico del sole e fornirà una
migliore comprensione del ruolo che il sole gioca nella chimica dell’atmosfera terrestre e sul clima del nostro pianeta. L’attività solare ha una profonda influenza sul nostro pianeta. Le eruzioni più grandi e le emissioni di radiazioni particolarmente intense possono mettere fuori uso satelliti e sistemi di comunicazione e di energia. Le immagini mandate dalla sonda sono 10 volte più chiare di quelle trasmesse dalla televisione ad alta definizione.
Cristiana Pulcinelli

viernes, 23 de abril de 2010

Il giallo della donna ritratta nel Cenacolo

Sforza Galizia: San Giovanni con tratti femminili. La Haziel: nessun travestimento, scelse proprio una donna

Dal Codice Da Vinci agli studi degli esperti

Il giallo della donna ritratta nel Cenacolo
Sforza Galizia: San Giovanni con tratti femminili. La Haziel: nessun travestimento, scelse proprio una donna




Il Cenacolo di Leonardo è uno dei capolavori più noti e studiati al mondo. Il lungo restauro, le condizioni di difficile conservazione dovute ai «vizi d'origine» della parte sulla quale è stato realizzato l'affresco, sono tra gli elementi che negli anni lo hanno riportato all'attenzione del pubblico.
Ma c'è poi un versante legato alle interpretazioni del «linguaggio» di Leonardo che ha attratto,da sempre, molti studiosi. Un filone che, per la quantità di misteri che sembra racchiudere, ha perfino avuto una traduzione «popolare» di grande successo grazie al libro (e al film che ne è stato tratto) Il Codice da Vinci di Dan Brown. Un successo mondiale, quello dello scrittore americano, che ha indirizzato anche le principali attenzioni del pubblico su alcuni particolari dell'affresco. Non necessariamente i più importanti, però. Come quello della «figura femminile» accanto a Gesù, molto funzionale alla ricostruzione di Dan Brawn per la tesi del matrimonio tra Cristo e la Maddalena e la successiva discendenza, mantenuta segreta e protetta dai Templari. Il romanzo fa riferimento sia alla simbologia (la V che si forma tra San Giovanni e il Cristo) sia alla rappresentazione, effettiva, di una donna (la Maddalena) e non dell'evangelista, alla destra di Gesù. Ovviamente la verità romanzata, che pure si basa su ipotesi di studio consultate da Dan Brawn, affascina. Ma davvero, nel suo affresco, Leonardo ha dipinto una donna al posto di San Giovanni?


LO STUDIO SULL'ARAZZO - Panorama, questa settimana, pubblica un'intervista a Sabrina Sforza Galizia, studiosa che pubblica ora un libro intitolato «Il Cenacolo di Leonardo in Vaticano. Storia di un Arazzo in seta e oro», aggiunge nuovi particolari sia sulle profezie astronomiche che la versione leonardesca dell'Ultima Cena conterrebbe, sia sul particolare della figura femminile. La novità è che gli elementi sui quali ha potuto basarsi la studiosa derivano (anche) da un arazzo, copia esatta del Cenacolo commissionata a Leonardo da Luigi XII, custodito ora in Vaticano. In base all'esame dell'arazzo, risultano più chiari tanti indizi sulle profezie «cifrate» nel capolavoro, in particolare il calcolo sulla fine del mondo. E, anche, sulla figura femminile. «Quello di Dan Brawn - dice a Panorama Sforza Galizia - è un pasticcio che ha suggestionato milioni di persone, ma non offre un cifrario per decrittare il messaggio del Cenacolo. Leonardo dipinge davvero San Giovanni con tratti somatici di una donna e lo fa volutamente, perché nel linguaggio che usa San Giovanni è "femmina"». Il motivo? Perché, secondo la studiosa «utilizza la tradizione pittorica che fa uso della dualità maschio-femmina per simboleggiare una disgiunzione astrononomica necessaria per il calcolo dei tempi (...). Complicato? Forse, ma nulla è semplice negli studi su Leonardo. E poi, spiega, la terminologia maschio-femmina vige tuttora anche tra i nostri falegnami ed elettricisti e rispecchia un termine tecnico applicato anche all'astronomia».

«GIOVANNINA , VISO FANTASTICO» - Certamente i lettori di Dan Brawn e quanti che hanno visto il film si saranno sorpresi di sapere che nel Cenacolo fosse rappresentata una donna. Magari hanno pensato anche a una forzatura romanzesca. Invece la «presenza» femminile era già nota agli studiosi. Diversa cosa è attribuirle poi significati precisi e legati a messaggi cifrati. Le spiegazioni per la presenza della figura femminile possono essere anche altre. E persino molo più semplici, perché lasciate dallo stesso maestro nei suoi scritti. «Per trovare i volti degli apostoli - spiega infatti Vittoria Haziel, studiosa dell'opera leonardesca - Leonardo girava per le strade di Milano e segnava appunti sui suoi manoscritti sulle figure incontrate. Per una di queste egli scrive chiaramente che si tratta di "Giovannina, viso fantastico sta a Santa Caterina allo spedale"». Non si sa se si trattasse di un'infermiera o di una malata. Ma secondo la Haziel, che ha pubblicato di recente il libro «La Confessione di Leonardo» è proprio lei che dà origine alla figura alla destra di Gesù. «Questo appunto si trova infatti proprio sotto a quello della figura che ispira Cristo, o meglio Crissto, con due esse, come scrive Leonardo: "Giovan Conte, quello del cardinale del Mortaro". «Nessun apostolo "travestito" da donna quindi - conclude la Haziel - ma una donna vera e propria».


Informazione del Corriere della sera

martes, 20 de abril de 2010

Lo stress influenza l'evoluzione genetica

Scoperta da uno studio della Sapienza di Roma la proteina dello stress


L’ambiente, in particolare i fattori di stress, possono cambiare il genoma degli organismi e quindi incidere direttamente nello sviluppo e nell’evoluzione delle specie? L’interrogativo ha un peso determinante nelle teorie evoluzionistiche che, nella formulazione darwiniana classica, attribuiscono all’ambiente un ruolo esclusivamente di selezione. La risposta è stata ora trovata in una proteina: la Hsp90 (Heat Shock Protein - Proteina da shock termico) responsabile del comportamento di alcuni elementi genetici presenti nei cromosomi.

La scoperta, pubblicata sulla rivista Nature,è stata realizzata dal gruppo di ricerca coordinato dal professor Sergio Pimpinelli, direttore del dipartimento di genetica e biologia molecolare della Sapienza, in collaborazione con le Università di Lecce e di Bari, che ha studiato appunto i meccanismi di funzionamento della proteina Hsp90.

La Hsp90 è essenziale per la corretta funzionalità di molte classi di proteine coinvolte nei processi di moltiplicazione e differenziamento cellulare. Per questa ragione Hsp90 è uno dei bersagli di molteplici approcci sperimentali per la cura dei tumori. Questa proteina è stata studiata soprattutto nei processi cellulari scatenati da vari tipi di stress ambientali come l’elevata temperatura nei quali essa ha la funzione di aiutare altre proteine ad acquisire una corretta conformazione, preservando l’integrità della cellula.

Studiando i meccanismi d’azione della Hsp90 i ricercatori della Sapienza hanno individuato il comportamento della proteina nei confronti di elementi genici mobili, i trasposoni. Questi sono segmenti di DNA, simili a particelle virali, che si spostano da una zona all’altra del cromosoma causando una mutazione. Nel corso dell’evoluzione essi hanno sicuramente avuto un ruolo importante nella creazione di modificazioni e variabilità genetica.

Mentre normalmente la Hsp90 funziona da silenziatore dei trasposoni per bloccare eventuali mutazioni che potrebbero causare sindromi genetiche e trasformazioni cellulari, in condizioni di stress questa funzione viene inibita. Ciò significa che lo stress, sottraendo i trasposoni dall’azione di controllo della proteina Hsp90, agisce da semaforo verde al loro spostamento nel genoma.
I risultati dei ricercatori della Sapienza, oltre a rafforzare l’idea dell’importanza della Hsp90 come target di elezione per la terapia dei tumori, hanno fornito, per la prima volta, le basi molecolari per la dimostrazione di un concetto evolutivo (la canalizzazione) basato sull’idea che l’organismo sia la risultante dell’interazione tra informazione genetica e ambiente, concetto già formulato da Conrad H.

domingo, 18 de abril de 2010

Scoperto il vulcano sottomarino più profondo del mondo

È situato nei Caraibia 5.000 metri di profondità


Si chiama Black Smoker, “fumatore nero” ed è il vulcano sottomarino più profondo del mondo. Lo ha scoperto una spedizione britannica a 5.000 metri di profondità nella fossa di Cayman, la catena montuosa che si estende a 7.600 metri sotto il livello del mare, fra la Giamaica e le Isole Cayman.

Non emette lava, ma acqua bollente, a una temperatura talmente elevata (250-300°C) da poter fondere senza problemi il piombo. Anche la pressione dell’acqua che circonda il vulcano è impressionante: 500 volte più forte della normale pressione atmosferica. Il Black Smoker è stato individuato grazie al robot sottomarino AutoSub6000, progettato dagli ingegneri del National Oceanographic Center (Noc) di Southampton e telecomandato dalla superficie da un gruppo di scienziati ospitati a bordo della nave di esplorazione oceanica James Cook. In seguito, è stato utilizzato un altro veicolo sottomarino, chiamato HyBIS, per filmare i ritrovamenti.
“È stato come esplorare la superficie di un altro mondo - ha detto Bramley Murton, il geologo del Noc, che ha teleguidato il dispositivo – i colori arcobaleno delle acque e l’azzurro fosforescente dei tappeti di microbi che le ricoprivano, non assomigliavano a niente che avessi già visto”.

Il “fumatore nero” non è l’unica sorgente di questo tipo a essere stata scoperta, i primi esemplari del genere sono stati individuati tre decenni fa nel Pacifico; la maggior parte di essi si trova però a profondità molto inferiori, attorno ai 3.000 metri. Nei pressi del vulcano, gli scienziati hanno scoperto l’esistenza di numerose creature degli abissi, degli esseri che sembrano sfidare, con la loro sopravvivenza in un ambiente così ostile, le regole stesse della biologia.

Lo staff del progetto ritiene perciò che studiando le forme di vita che vivono a queste profondità, si possano ricavare indizi su come ha avuto inizio la vita sulla Terra e addirittura sulla possibilità di vita su altri pianeti, dove esistono condizioni ambientali simili. L’esplorazione del vulcano, condotta all’interno di un progetto di studio del Consiglio per le Ricerche sull’Ambiente Naturale del Regno Unito, continuerà fino al 20 aprile; l’equipaggio condividerà le sue scoperte postando foto e video sul sito Internet del progetto, Thesearethevoyages.net.

FEDERICO GUERRINI

jueves, 15 de abril de 2010

Studio svedese, Internet efficace contro depressione e panico

L'aiuto basato su sessioni online funziona come l'approccio faccia a faccia



La terapia telematica per disturbi come la depressione e le crisi di panico risulta essere efficace quanto i normali trattamenti faccia a faccia, secondo quanto afferma uno studio svolto dalla Swedish Medical University Karolinska Institute (KI), di cui dà notizia il Global Times.

I ricercatori hanno sottoposto un gruppo di 104 pazienti affetti da depressione e ansia ad un programma di aiuto basato su sessioni di autoterapia via Internet, accompagnati dal supporto del terapista via e-mail. Una prassi completamente diversa dall’approccio "normale" per la terapia cognitivo-comportamentale, basato su rapporti faccia a faccia e gruppi di sostegno. I risultati del nuovo studio hanno però dimostrano che non si hanno differenza significative tra i due metodi, anche nel periodo di sei mesi successivo alla cura.

È stimato che la depressione colpisca circa il 15% della popolazione e le crisi di panico il 4%. Sono patologie che condizionano fortemente la vita di chi ne è affetto, includendo numerosi sintomi come oltre all’umore negativo anche senso di colpa, letargia, difficoltà di concentrazione, disturbi alimentari e insonnia.

«La terapia cognitivo comportamentale basata su Internet è anche più conveniente rispetto alla terapia di gruppo- ha commentato Jan Bergstrom, un ricercatore presso il Centro di Psichiatria di ricerca del Ki - I risultati ottenuti sottolineano la necessità dell’introduzione regolare di internet nel trattamento psichiatrico riguardo a patologie come la depressione e l’ansia».

martes, 13 de abril de 2010

Le cattive ragazze degli Anni Settanta

Vestita da bad girl entra in un cinema porno pieno di maschi, ha un mitra in mano, uno strappo triangolare nei jeans e il pube bene in vista. È il 1969, Valie Export, l’artista austriaca che l’anno precedente aveva portato al guinzaglio un uomo a quattro zampe per le strade di Vienna, si avvicina agli spettatori e chiede loro di fare ciò che desiderano con il suo sesso. Gli uomini, anziché eccitarsi, si imbarazzano e lentamente abbandonano la sala. Altro scenario: Los Angeles, tra il 18 ottobre e il 29 novembre 1977, dieci donne vengono stuprate e strangolate. Alcuni mesi più tardi due artiste, Suzanne Lacy e Leslie Labowitz, organizzano una performance davanti al Woman's Building di Los Angeles. Dieci attrici vestite a lutto salirono sul retro di un carro funebre scortato da motociclette e da ventidue macchine piene di donne. Viene srotolato uno striscione che dice: «In memoria delle nostre sorelle, le donne reagiscono». È una dichiarazione di guerra alla violenza di genere.

La mostra «Donna: Avanguardia femminista negli Anni 70», dalla Sammlung Verbund di Vienna, curata da Gabriele Schor, ricostruisce l’allarmante scenario della sovversione femminile contro il silenzio, la mistificazione e l’isolamento sociale. Gli strumenti utilizzati dalle artiste sono fotografia e video. Il supporto è il proprio corpo, nudo o travestito, in performance pubbliche o private. Per la prima volta nella storia si formano gruppi femministi organizzati dall’impatto dirompente, anche se, sul mercato, dei loro lavori quasi non resterà traccia. Uno dei punti vulnerabili ricorrenti è quello dell’identità: Martha Wilson impersona la lesbica, la professionista, la hippy.

La barbuta Eleanor Antin, travestita da re seduto al bar, s'infiltra come un personaggio surreale nel quotidiano, mentre Brigit Jurgenssen si traveste da bestia e Ana Mendieta applica una barba vera al proprio viso. Nel percorso in bianco e nero della mostra si giunge poi ai personaggi giovanili interpretati da Cindy Sherman. La necessità impellente e drammatica di uscire dai ranghi si manifesta oltre che nel cambiamento dell'identità, nella provocatoria nudità del corpo. Il movimento è frammentato e radicale e trasmette un profondo senso di disagio.

Le opere non sono commercializzabili, perché troppo crude e lucide. Alcune artiste hanno appena il tempo di vivere la loro fulminea stagione come Ketty La Rocca, con la sua comunicazione intima e gestuale, che muore a trent'anni; o Hannah Wilke, che accusata dalle altre femministe di esibire in modo troppo ambiguo la propria nudità, non rinuncia a mostrare il corpo anche quando sarà irrimediabilmente deformato dalla malattia. Francesca Woodman rimarrà un'apparizione misteriosa, come se il suo ambiente domestico, nella mimesi da lei ripetutamente inscenata, l’avesse effettivamente risucchiata.

MANUELA GANDINI

miércoles, 7 de abril de 2010

Nei negozi Usa c'è l'iPad, grande scommessa Apple

In tanti, dandone per scontato il successo planetario, vanno già alla domanda successiva: in quale misura l’iPad cambierà il nostro vivere quotidiano? Altri, scettici o realisti fate un po’ voi, si pongono ben diverso quesito: ma in fondo l’iPad a che cosa serve? Con il paradosso che le stesse due domande frullano da sabato scorso nella testa delle moltissime persone che negli Usa corrono ad acquistare l’ultima creatura partorita dalla fervida mente di Steve Jobs, lo storico patron di Apple. Eh sì, perché della reale utilità di questo inedito dispositivo ci si potrà fare un’idea attendibile soltanto nelle prossime settimane, quando prenderà forma l’“ecosistema” digitale ad esso dedicato, lo stesso che negli anni più recenti ha decretato l’incredibile successo dell’iPhone.

Uno dei primi acquirenti dell'iPad all'uscita dell'Apple Store di San Francisco

Eppure, come detto, nonostante i dubbi attuali in tanti si sono precipitati nei negozi per "conquistare" l’oggetto, 499 dollari il costo del modello base Wi-Fi per superare gli 800 dollari dell’imminente versione 3G, praticamente sulla fiducia, e lo stesso faranno probabilmente tanti italiani a partire dalla fine di aprile. Fiducia nella Apple e in Jobs, che negli ultimi anni hanno letteralmente cambiato il volto dell’elettronica “in movimento” prima grazie all’iPod e poi al citato iPhone.

Nel caso dell’iPad, però, la scommessa appare ancor più ambiziosa. Se iPod e iPhone rivoluzionavano forma ed utilizzo di dispositivi già esistenti, il riproduttore musicale portatile ed il telefono, l’ultimo nato vuole addirittura creare una nuova famiglia di dispositivi. Per le sue caratteristiche, infatti, l’iPad si differenzia da qualsiasi altra tipologia di device elettronico. Chi lo ha già fatto suo, si trova di fronte ad un congegno di tipo tablet spesso poco più di un centimetro, praticamente a tutto schermo (un display touch da 9,7 pollici), che pesa 700 grammi ed offre un’autonomia superiore alle 10 ore.

L'iPad ha uno spessore di poco superiore al centimetro

Forte di queste caratteristiche hardware, l’iPad consente agli utenti di guardare video, ascoltare musica, giocare, navigare in Internet e leggere libri elettronici nonché riviste e quotidiani. Funzionalità che nella quotidianità lo candidano a sostituire di volta in volta dispositivi o prodotti già esistenti. Sempre che l’utente decida di privarsi di quest’ultimi a suo beneficio. E qui entrano in scena gli scettici di cui sopra, i quali sottolineano come per quanto seducente la creatura di Jobs abbia al momento diversi punti deboli, come la mancanza di fotocamera, alloggiamento per le schede di memoria e collegamento USB, mentre a livello software sottolineano l’impossibilità di gestire più applicazioni contemporaneamente (il cosiddetto multitasking) e quella di visualizzare siti di video che usano il diffuso software Flash di Adobe.

In realtà, a fare la differenza in un senso o nell’altro sarà la forza con cui si svilupperà il citato ecosistema digitale. A fare la fortuna dell’iPhone, infatti, ci sono soprattutto le circa 150.000 applicazioni sviluppate da terze parti per “girare” sul telefono Apple, programmi che potranno essere installati anche sull’iPad, sebbene con limitazioni sul fronte della visualizzazione e dell’operatività. Se lo stesso proliferare di applicazioni espressamente dedicate si scatenerà intorno a questo tablet, allora la scommessa commerciale potrà dirsi vinta. Ma un indizio di come andrà a finire arriva anche dalla concorrenza: dispositivi concettualmente simili all’iPad stanno per essere lanciati da HP/Microsoft e da Dell, e c’è chi scommette pure su Google. insomma, in caso di insuccesso, Steve Jobs si ritroverebbe in eccellente compagnia.

Marco Ventimiglia

sábado, 3 de abril de 2010

Il fiume Reno ha 90 km di meno...

Non è stato un errore di misurazione.

Molto più semplicemente, a quanto pare, si è trattato di uno scambio di cifre.

Per quasi un secolo libri ed enciclopedie tedesche hanno riportato un dato sbagliato. Generazioni e generazioni di studenti hanno imparato a scuola che il Reno, uno dei maggiori fiumi d’Europa, che nasce in Svizzera, sfocia in Olanda e attraversa tutta la Germania, è lungo 1.320 chilometri. Ma è un errore. Un biologo dell’università di Colonia ha rivelato la scorsa settimana che il fiume è più corto di 90 chilometri: è lungo 1.230 km, come lo riportavano fonti più vecchie di 100 anni.

Una banale svista nella trascrizione sembra essere all’origine della cantonata del secolo. Prima dei computer, infatti, erano i contabili e i ragionieri che dovevano sommare a mano lunghe colonne di numeri e verificarne più volte l’esattezza. Sebbene si servissero talora di una calcolatrice, spesso accadeva che al secondo controllo la somma non corrispondesse. Un buon ragioniere lo sa. La principale causa di errore è abbastanza ricorrente: si tratta di uno scambio di cifre. I tedeschi poi, hanno la mente particolarmente allenata a questo tipo di scambi. La lingua stessa lo impone. Basta pensare che i numeri si leggono al contrario. Per dire, per esempio, «trentanove», si dice «nove e trenta».

Sempre uno scambio di cifre è stato, in tempi più recenti, all’origine di quella che è conosciuta come la versione tedesca della «Pizza Connection». Nel 2003 Michel Friedman, un popolare conduttore televisivo, era finito in un grande scandalo di traffico di droga per un errore banale del suo studio legale che nel momento di mandare documenti altamente riservati via fax aveva sbagliato a comporre il numero. Le informazioni segrete erano finite nel retrobottega di un panettiere scaltro, che le aveva vendute al quotidiano sensazionalista Bild. Ed è con questo schema, in un momento imprecisato nel passato, che fra gli 80 e i 100 anni fa qualcuno ha commesso un errore di trascrizione, chissà se accompagnato da un lapsus o da una mania di grandezza: i 1.230 chilometri sono saliti a 1.320.

L’errore è stato scoperto la scorsa settimana dal biologo Bruno Kremer, dell’Università di Colonia. L’esperto stava facendo uno studio su quello che rappresenta il più navigabile dei fiumi tedeschi, quando si è scontrato con dati discordanti. «Mi sono accorto che nelle pubblicazioni dell’inizio Novecento il Reno veniva citato con una lunghezza inferiore di quella di adesso, 1.230 chilometri appunto, quando invece tutte le enciclopedie moderne e i dati del Governo attuali riportavano 1.320», ha spiegato Kremer al quotidiano Süddeutsche Zeitung. «Sono andato avanti con le ricerche e ho raccolto in tutto una cinquantina di fonti sulla lunghezza del fiume. Si dividevano esattamente su queste due posizioni. La discordanza non mi dava pace. Decisi di trovare la ragione». Per uscire dal dubbio, Kremer è andato alla radice del problema e ha rimisurato il corso del fiume. Ha fissato il «punto zero», nella città di Costanza, che coincide con l’inizio del fiume nel territorio tedesco. Ha poi misurato l’estensione fino a Hoeck von Holland, la località in cui il Reno sfocia nel Mare del Nord. La misurazione di questo tratto ha dato come risultato 1.032 chilometri. Successivamente, ha aggiunto l’estensione del lago di Costanza e, infine, la parte svizzera del fiume. Il risultato è stato di 1233 chilometri. «Abbiamo raffinato i calcoli e siamo arrivati in un secondo momento a 1.232», ha spiegato Ankie Pannekoek, portavoce del dipartimento idrico del governo olandese. «Anche noi nelle nostre pubblicazioni riportiamo il numero 1320, nonostante abbiamo sempre avuto un dubbio», ha aggiunto Alfred Hommes, portavoce dell’istituto federale di idrologia tedesco. In questo mese la commissione di idrologia dell’area del Reno si riunirà per controllare nuovamente l’estensione reale del fiume. «Se sarà necessario, faremo una correzione ufficiale», ha assicurato Hommes. Ora è il momento di cercare l’origine del problema. Mentre sarà difficile arrivare a un diretto responsabile, si può circoscrivere un periodo storico e delineare un prima e un dopo.

Secondo la Süddeutsche Zeitung, la cifra errata compare per la prima volta negli anni ’30. Le edizioni dell’enciclopedia Brockhaus del 1903, della Herder del 1907 e della Meyer del 1909 attestano infatti la cifra di 1.230. Invece l’enciclopedia Knaur del 1932 riporta, forse per la prima volta, la lunghezza sbagliata di 1.320. Nella Brockhaus, l’errore appare per prima volta nel 1933 e si ripete in tutte le edizioni fino ad oggi. L’ipotesi dell’inversione delle cifre sembra essere la più probabile, perché mentre l’errore sulla lunghezza è stato tramandato e ripetuto infinite volte (in tutti i siti italiani figurano 1.320 chilometri) i valori parziali (vale a dire la misura del tratto svizzero e quella del tratto tedesco) vengono spesso riportati correttamente. Il museo del Reno ha già proceduto a modificare la cifra. L’enciclopedia Brockhaus ha assicurato che lo farà nella prossima edizione e dopo i nuovi accertamenti. Anche tutti i libri scolastici dovranno cambiare: in classe insegnanti e ragazzi dovranno accontentarsi della misura più bassa. Laura Lucchini

viernes, 2 de abril de 2010

To be or not to be: inglese, tu m'hai provocato...

tutti gli articoli dell'autore C’era una volta «trend negativo» e c’è ancora. Moltiplicato per briefing, feedback, brunch.

Perché in barba a Nanni Moretti gli italiani, ormai, taggano, mandano poke, hanno un background, fanno stage. Così che parlare l’italiano vuol dire inciampare in un prestito linguistico per ogni frase pronunciata: «Oggi sto davvero down», «Il prossimo week vado in montagna», «Domani sono out». Prendiamo in prestito parole dall’inglese scomodandolo in continuazione neanche fossimo sul lastrico. «È un fenomeno non contrastabile, - spiega Alessandro Serpieri, professore emerito di Letteratura Inglese presso l’Università di Firenze, il più grande traduttore di Shakespeare vivente - l’inglese è diventata la lingua franca per la forte presenza culturale americana, più che inglese, e perché è la lingua che impera su internet». Così mentre i francesi «cercano di mettere un freno: loro hanno un entroterra purista», noi italiani siamo "dirty" fino al midollo. L’ordinateur per noi è un computer e «le Sida» si chiama Aids, anche se per sciogliere l’acronimo dobbiamo pensare al contrario: acquisita immuno deficienza sindrome. E nessuno lo sa fare. Che sarà mai, tutto sommato, l’importante è sapere cos’è. Bello, bellissimo lo scambio culturale e linguistico, l’apertura generosa verso l’altro. Troppo nazionalisti i france e troppo retrò gli spagnoli che addirittura chiamano la serie televisiva americana Perdidos anziché Lost, e il divo Tom Crusero. Noi italiani – Moretti a parte - siamo decisamente più cool. Eppure, se l’atteggiamento conservatore dei francesi per la loro lingua può tradurre una forte identità nazionale. Se quello spagnolo suona come i nostri vecchi libri di Storia, dove Thomas More era Tommaso il Moro, e che dire di Francesco Bacone. Anche lo sbracamento italico di fronte a Your Majesty The English language avrà qualche pummarola n’goppa. Si legge, per esempio, nei dati dell’Istat che tra gli italiani solo il 5,1 per cento parla un’altra lingua (dati del 2007). Imbarazzante: ce l’abbiamo sempre in bocca, ma non lo sa parlare nessuno.

«È ancora parlato e pronunciato male da noi perché non c’è stato un investimento massiccio da parte della scuola nell’apprendimento dell’inglese. – interviene ancora il noto anglista - Anche in Francia, per esempio: i francesi lo parlavano malissimo, ma nonostante il purismo, adesso lo parlano molto meglio». In Italia, invece, la pen is ancora on the table, e da lì non sembra voler muoversi. Quel che rubiamo, poi, è spesso rubato male: se l’indomani non dobbiamo lavorare, in inglese si direbbe che è un giorno off, per esempio, e non out. Mentre stage, che pronuciamo steig, in inglese è utilizzato per indicare un palco o una fase sì, ma non esattamente un apprendistato. Lo prendiamo in prestito, in realtà, dal francese, e lo acclimatiamo a regole di pronuncia di un’altra lingua ancora: un esempio di prestito acclimatato che avrebbe acceso gli appetiti di Ferdinand de Saussure. Monica Lewinsky, in poche parole, non era una stagista, perlomeno non in inglese, ma una trainer o una fortunata vincitrice di una internship alla Casa Bianca. E tutta l’Italia, da Facebook in poi, si chiede cosa mai sia un poke. Lo parliamo poco e male, è vero, ma col giusto business plan e un serio briefing a vendere la fontana di Trevi ci impiegheremmo un attimo. Ci traduciamo in inglese così in modo perfetto: «Facciamo cose, vediamo gente».

Ecco il nostro modo di parlarlo, un po’ spaccone e un po’ cialtrone, tutto wisky, soda and rock n’roll. «Un fenomeno adolescenziale», per Serpieri, frutto dell’americanizzazione della società italiana nel secolo scorso, quando la fine della seconda guerra mondiale mutò del tutto l’atteggiamento degli italiani nei confronti della lingua degli yankee, passando da pose xenofobe alle braccia spalancate dagli eventi bellici e dal cinema. Non ci resta che piangere? Forse, ma preferiamo riderne. C’è, infatti, un nuovo fenomeno (o trend) tutto italico che dice di più sul carattere nazionale: «Who doesn’t risica, doesn’t rosica», oppure «less bad», per «chi non risica non rosica» e «meno male». Perché se sei italiano vuoi ballare il rock ‘n roll, giocare a baseball e tradurre tutto in un gioco. Impazza su internet ma è una moda ovunque, si trasformano modi di dire o detti dialettali traducendoli alla lettera sdrammatizzando la lingua di Elisabetta I in puro divertimento. Un fenomeno spontaneo e regionale. I siciliani - che su internet registrano il numero più alto di siti che elencano detti dialettali, ben 2 milioni e 200mila – si traducono, per esempio, così: «beautiful mother» (bedda matri), «every little liver of fly makes substance» (ogni ficateddu i musca fa sustanza/ ogni cosa, anche il fegato di una mosca fa sostanza). E si gioca anche sui nomi, così che Forte Petrazza a Messina è ormai Fort Rock, mentre il quartiere catanese Librino è diventato little book.


Ma il fenomeno non è solo siciliano e il dileggio dell’inglese spopola nelle pagine web di tutta la penisola. Sara, dalla provincia di Frosinone, in una nota su facebook crea un dizionario ceccanese-inglese: «you told me turn me this donkey» (m'hai ditt giramu st'asn), «even the flea have a cold» (pur l puci tenn la tossa), per fare qualche esempio. Ancora su facebook, questa volta in Puglia, «proverbi anglo-gravinesi», è il titolo del topic dove si legge: «it's better a drunk to a fountain, that a cock-beat to a bitch» (Iè megghij na bvut a na funden, ca n'acceddet a na putten), o «The devil has put on in front of my eyes» (sè miis u diavhl nanz all'occhij). Nella freeforumzone di Leonardo si trovano, invece, esempi dal veneto: «Look sometimes» (Varda dee volte). E non poteva mancare «You're out like a balcony» (sei fuori come un balcone). Né il romanesco: “But go to die killed” (ma và a morì ammazzato), o «I don’t care of less» (non me ne po’ fregà de meno). Roba da fare rivoltare John Florio nella tomba, che già nel ‘500 tradusse i proverbi italiani – ma non per scherzo – in inglese, «molti detti e proverbi inglesi hanno attinto all’opera di Florio, perciò ai detti italiani, così che nei proverbi inglesi troviamo delle precise trasposizioni di quelli italiani». Ma tradurli alla lettera non è che un gioco, e chissà che non sia stato William Shakespeare in persona ad anticiparlo, quando prese dal siciliano «Tantu trafficu pi nenti» lo spunto per il suo «Much ado about nothing», ovvero «Molto rumore per nulla» (ambientato, infatti, a Messina). Così, anche il grande traduttore si presta: «I’m of the cat: sono di gatto. – propone Serpieri - Espressione usata a Firenze per dire che si è nervosi».

Fenomeno che dice molto sulla nostra identità, ancora così regionalizzata, frutto di un passato fatto di frammentazione, perciò ben lontano dai francesi, è chiaro. Ma attenzione, regione per regione i detti cambiano - non sempre -, e le traduzioni pure, ma il fenomeno è uguale dappertutto: è nato in italì, non ci sta nothing to do’.

Manuela Modica

miércoles, 31 de marzo de 2010

Quando gli architetti giocano

Il prototipo del Museo del Qatar, ideato da Jean Nouvel
Dubai capitale visionaria del nuovo design



E' Dubai la capitale del nuovo design: shock visivi al posto delle metropoli



Dubai è il posto perfetto per costruire tutto dal nulla: nessun condizionamento estetico, niente città storiche, niente natura. Solo un deserto piatto, dove far lavorare una popolazione edilizia unica al mondo: un milione e mezzo di persone, di cui solo il 20% dotato della cittadinanza; poche donne, tanti giovani, età media intorno ai 25 anni.

La maggioranza è composta da immigrati: afgani, arabi, iraniani, indonesiani, pachistani, cingalesi, africani. Sono operai edili arrivati lì per costruire la nuova Disneyland del futuro, una città dei balocchi, tutta da visitare, e non abitare stabilmente, come sostiene Mike Davis, il sociologo americano. E con loro l'esercito delle domestiche, fianco a fianco ad escort e prostitute: dalla Russia, dalla Cina e da altri Paesi asiatici.

Gruppi di speculatori Ogni anno arrivano nell'Emirato Arabo oltre 10 milioni di turisti; sono esponenti di gruppi speculativi e immobiliari russi, indiani, americani, europei, o giovani professionisti di tutto il mondo, sia di uomini sia donne, perché a Dubai non vigono le medesime restrizioni dei Paesi islamici. Dopo l'11 settembre 2001 i capitali finanziari investiti in America sono ritornati di colpo nel Emirati Arabi Uniti. Così Dubai ha realizzato quella architettura che Rem Koolaas aveva teorizzato decenni fa in «Delirious New York», figlia del Luna Park di Long Island, e insieme lo Junkspace, lo «spazio spazzatura», come s'intitola un libro più recente del provocatorio architetto olandese, saturo di cose, oggetti, forme.

Le superstrade, che attraversano la stella filante degli Emirati Arabi Uniti, corrono tra due ali di grattacieli svettanti come in un fermo immagine di «Blade Runner», superfici specchianti dalle forme più bizzarre e strane. Si tratta di quella «società della trasparenza» che Maurizio Cecchetti ha stigmatizzato nel recente «Pelle di vetro». Il libro dell'antiarchitettura. Gli autori si chiamano Zaha Hadid, autrice del Museo di Dubai, astronave venusiana, e della Opera House, simile a una coppia casse acustiche a forma cuspidale; Tadao Ando, invece, firma l'Isola della Felicità, atollo artificiale a Abu Dhabi, un altro degli Emirati, e all'interno il nuovo Guggenheim di Frank Gehry, fianco a fianco con il Museo del Mare e il Museo dell'Arte Classica di Jean Nouvel.

Ma perché tutte queste «Archistar» corrono a Dubai a costruire al soldo del capitale finanziario più inquietante e oscuro del pianeta, per un sistema politico fondato sull'aristocrazia ereditaria, uno dei meno democratici del pianeta? E soprattutto perché costruiscono edifici la cui forma appare una fusione di sogni utopistici del Futurismo e di un'architettura-giocattolo, figlia diretta di una modellistica scultorea realizzata da fantasiosi allievi di una Accademia di Belle Arti? Cecchetti nel suo saggio sostiene che si tratta della fine della grande utopia modernista architettonica: essere la forma materiale e visiva della democrazia.

Motore di ricchezza
Come ha mostrato in una serie di reportage da Dubai, una giovane studiosa di architettura, Lucia Tozzi, la rendita fondiaria, reputata residuale, peso morto del capitalismo, dagli anni Novanta è diventata uno dei principali motori di ricchezza sui mercati finanziari, così da innescare i maggiori cambiamenti nel tessuto urbano, e non solo a Dubai, ma anche in Cina, e presto in India. Sarebbe stata l'esplosione della bolla immobiliare a dare via libera al trionfo del «Real estate» che domina oggi le Borse, e governa, senza governarli poi davvero, i flussi della popolazione mondiale inurbata, che da poco ha superato quella rurale nel Pianeta.

Gli architetti vanno dunque là dove c'è il denaro, là dove la possibilità di spenderlo per progetti faraonici non deve sottostare alle regole complesse e delicate della democrazia, dove autocrati, capi di partito, monarchi assoluti, oligarchie del petrolio possono realizzare sogni estetici che non hanno più a che fare con l'abitare e con il risiedere, bensì con il nomadismo mondiale, per cui la popolazione segue i flussi finanziari stessi e i suoi sogni architettonici.

Le costruzioni di Dubai e delle sue consorelle sono la realizzazione su vasta scala di architetture spettacolari che la generazione dei postmodernisti degli anni Ottanta del XX secolo non immaginavano neppure possibile. La città non pare esistere più. Al suo posto una serie di skyline, più o meno scintillanti, isolotti artificiali su cui atterrano jet privati, dove si praticano sport di ogni tipo, dove si cerca la felicità nell'abbondanza, nel lusso e nel piacere senza troppo ostacoli di natura fisica o etica. Sono le architetture dell'Es, in cui il principio del godimento - Godi! è la parola d'ordine della contemporaneità - è dominante.

Disagio e ansia
Uno dei teorici più acuti dell’architettura contemporanea, Anthony Vilder, docente a New York, sostiene che pieghe, bolle, reti, pelli, diagrammi, che determinano oggi le forme delle architetture globalizzate, sono l'effetto del disagio e dell'ansia che domina il mondo contemporaneo. L'effetto è la «deformazione dello spazio», il suo stiramento, la torsione e l'invaginamento delle superfici, segno tangibile che dietro ai sogni infantili dell'architettura contemporanea cova un'angoscia del vuoto difficile da colmare.

Marco Belpoliti

domingo, 28 de marzo de 2010

Il Fai delle meraviglie: 590 monumenti aperti al pubblico

Torna la Giornata di Primavera del Fai (Fondo Ambiente Italiano),


che per la 18/a edizione aprirà eccezionalmente questo fine settimana 590 monumenti tutte le regioni d' Italia. Saranno svelati bellezze e segreti di luoghi generalmente inaccessibili, palazzi, castelli, chiese, aree archeologiche, giardini, tra cui quest'anno figurano per la prima volta Palazzo Chigi a Roma, sede della Presidenza del Consiglio, Casa Verdi a Milano, Palazzo della Banca d'Italia a Firenze, il Conservatorio di San Pietro a Majella a Napoli, la Villa Romana di Casignana, a Reggio Calabria, Palazzo Grimaldi della Meridiana, un gioiello appena restaurato.

L'iniziativa, volta a sensibilizzare i cittadini alla conoscenza e alla tutela del patrimonio storico-artistico, coinvolgera' 225 localita', con una particolare attenzione per i paesaggi. Sono infatti previsti itinerari ed escursioni, come quella (a piedi, a cavallo o in bicicletta) che ripercorre i santuari francescani di Rieti o attraverso la Devotissima Ortigia, il suggestivo centro storico di Siracusa. O, infine, il quartiere medievale di Sanremo, nella parte alta, chiamato la Pigna.

La Giornata di Primavera, ha ricordato il presidente del Fai Ilaria Borletti Buitoni, ha richiamato fino a oggi oltre cinque milioni di cittadini e rappresenta ogni anno di piu' uno sforzo collettivo per salvaguardare e valorizzare le meraviglia d'Italia, che spesso nessuno conosce. ''Questa sara' un'edizione straordinaria per quantita' e qualita''', ha aggiunto, sottolineando che in 18 citta' sono previste visite guidate per cittadini stranieri li' residenti con traduzioni nelle loro lingue.

La manifestazione e' stata sponsorizzata anche quest'anno da Wind, che dal 1999 sostiene l'iniziativa e che quindi, ha proseguito il presidente del Fai, ''non da solo il suo contributo, bensi' condivide il senso di questa opera di sensibilizzazione''. ''Conosci il tuo patrimonio e impara ad amarlo e proteggerlo'', e' dunque lo slogan della Giornata di Primavera 2010, in cui l'accesso gratuito ai monumenti si trasforma, ha spiegato il direttore generale Marco magnifico, in una ''visita a contributo libero''. Non c'e' ovviamente obbligo, ma anche un solo euro bastera' a contribuire al finanziamento delle innumerevoli attivita' del Fondo per l'Ambiente Italiano, cui sono stati affidati nei 35 anni di vita palazzi, ville, parchi da salvaguardare e riportare alla fruizione del pubblico. ''Il Fai e il ministero dei Beni culturali sono come gemelli, hanno lo stesso scopo della difesa del patrimonio e della conservazione della bellezza'', ha detto il ministro Bondi, aggiungendo che il Fondo e' ''il migliore esempio di gestione privata di un bene pubblico'', in questo caso i siti di importanza storica e artistica da esso presi in consegna. ''La reale unita' d'Italia - ha concluso Magnifico - e' la varieta' e la ricchezza del patrimonio culturale, che sara' raccontata proprio dai monumenti aperti per la Giornata di Primavera''.

viernes, 26 de marzo de 2010

Le Combinazioni Alimentari

Le Combinazioni Alimentari Febbraio 2010
Come combinare insieme i cibi per digerirli correttamente

Contrariamente a quanto si pensa, lo stomaco non è una lavatrice!
Ingerire cibi diversi sulla base del presupposto che ‘tanto poi lo stomaco digerisce tutto’ significa compromettere seriamente le funzioni di questo organo e della salute in generale.
La digestione è un delicato processo che si basa su precise leggi chimiche. La Chimica è una scienza esatta e non ammette eccezioni. Ciò significa da un lato che se conosciamo queste leggi possiamo serenamente aver fiducia nel funzionamento del nostro corpo, e dall’altro, che se le infrangiamo, le conseguenze saranno inevitabili.
Stomaco, bocca e intestino producono oltre 300 succhi digestivi; ne deduciamo che la digestione è estremamente selettiva in quanto quasi ogni categoria di cibo ha il proprio succo digestivo. Questi succhi si dividono in due grandi categorie: quelli che si attivano e funzionano in ambiente acido e quelli che – al contrario – funzionano in ambiente basico o alcalino.
Una spiegazione dettagliata dell’acidità/alcalinità e del Ph esula dal nostro articolo, però possiamo dire in modo molto semplice che se mescoliamo una sostanza acida con una basica, l’effetto finale è molto simile a quello dell’acqua calda con quella fredda: le due si annullano.
Da questo semplice principio ne consegue che se mangiamo insieme un cibo che richiede una digestione acida con uno che invece ha bisogno di un ambiente alcalino, l’effetto finale sarà che nessuno dei due verrà digerito! La Pepsina è il succo gastrico che digerisce tutte le proteine (quindi, la carne, il pesce, i formaggi, le uova, le proteine vegetali ecc.) e richiede un ambiente acido per attivarsi (e difatti lo stomaco produce uno 0,3% di acido cloridrico). La Ptialina è il succo che digerisce gli amidi (quindi, cereali, pasta, pane, patate ecc.) e per funzionare richiede un ambiente basico.
Cosa succede se ad esempio mangiamo pane e salame? Il corpo deve produrre acidità per il salame, e contemporaneamente un ambiente alcalino per il pane… le due azioni avranno come risultato un effetto nullo, con la conseguenza che nessuno dei due succhi digestivi si attiverà e né il primo né il secondo alimento verranno digeriti.
Giungiamo così al primo e più importante principio della digestione: non abbinare insieme proteine con carboidrati. Siamo consapevoli di quanto sia difficile mettere in pratica questa regola perché la nostra cucina mediterranea ha moltissime ricette che uniscono proteine con carboidrati (pane e formaggio, polenta e salciccia, pasta al ragù, pesce con patate, frico [Ndr Il frico, è un piatto friulano originario dei monti della Carnia, la cui base è composta di patate e formaggio Montasio] – solo per fare alcuni esempi). Possiamo rimanere increduli di fronte a ciò, ma non dimentichiamoci che in natura non esistono cibi che abbinano insieme proteine e carboidrati (ad eccezione dei legumi che difatti vengono digeriti con fatica), oltre al fatto che gli animali tendono a mangiare separatamente queste sostanze (gli uccelli ad esempio mangiano vermi o semi in pasti diversi, anche i gatti di casa separano il ragù dalla pasta).
Sempre in tema di acidità/alcalinità, un'altra regola fondamentale è di non mangiare frutta durante i pasti, soprattutto con i carboidrati, perché tutta la frutta viene digerita nell’intestino, e se invece deve rimanere ferma nello stomaco per la digestione degli altri cibi, fermenta e produce ulteriore acidità che impedisce la digestione dei carboidrati, e anche rovina a lungo andare le delicate pareti dello stomaco e dell’intestino, producendo infiammazioni che se diventano croniche si trasformano in gastriti e coliti. La frutta è un’ottima fonte di vitamine, zuccheri e sali minerali, e non dovrebbe mai mancare nell’alimentazione quotidiana. Il modo migliore per mangiarla è a colazione, oppure prima dei pasti.
Terza importante regola: non abbinare insieme sostanze acide con i carboidrati, sempre per la stessa ragione. Qui il problema sta soprattutto nei pomodori e nella salsa di pomodoro, usata abbondantemente per condire la pasta, la pizza ecc. Il pomodoro è un frutto acido (al pari del kiwi e degli agrumi) e non una verdura come comunemente si pensa. Usarlo in tal senso significa fare un errore grossolano con conseguenze negative per la digestione e la salute in generale. Aggiungiamo che questi frutti – se non perfettamente maturi – contengono una sostanza velenosa, la solanina, e per questo andrebbero consumati solo in stagione, ossia d’estate, e con la certezza che siano stati raccolti completamente maturi, perché è il sole che elimina questa sostanza.
Lo spazio limitato per questo articolo non ci consente di approfondire l’argomento delle combinazioni alimentari, ma fortunatamente esistono tantissimi libri e pubblicazioni valide che possono servire per comprendere bene questi principi basilari.
L’alimentazione moderna si caratterizza soprattutto per l’abbondanza e la varierà degli alimenti a disposizione. Da un lato, ciò è una fortuna perché ci mette a disposizione una ricchezza impensabile solo un secolo fa, ma dall’altro occorre conoscere attentamente le qualità e le caratteristiche di tutti questi cibi per non combinarli in modo scorretto e rendere così estremamente difficile la digestione.

Nadia e Giacomo Bo

"21x21. 21 artisti per il 21° secolo" fulmini e saette per l'arte d'oggi

Alla Fondazione Sandretto 21 giovani talenti raccontano con "genialità malinconica" i percorsi creativi del ventunesimo secolo

"Mi hai visto prima?" E' il titolo dell'opera di Paola Pivi, un orso di piume


TORINO
Avremmo potuto fare una rassegna più o meno “tradizionale” mettendo Cattelan e altri big, ma ho preferito rischiare con una ricognizione sulla giovane arte italiana di oggi». Così Francesco Bonami spiega le scelte di «21X21», la mostra che si apre oggi pomeriggio alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo: in occasione del centenario della Confindustria propone le opere di «21 artisti per il 21° secolo» più una personale di Alberto Garutti. Tra questi 21 artisti alcuni sono già affermati a livello internazionale, ad esempio Paola Pivi, Patrick Tuttofuoco, Giuseppe Gabellone, Roberto Cuoghi, Diego Perrone, altri sono più o meno intorno ai trent’anni, la loro ricerca è ancora agli inizi e forse proprio per ciò ancora più interessante.

Si può individuare una tendenza o un filo che lega i lavori di questa nuova generazione? «Io parlerei - spiega Bonami - da un lato di ritrovata manualità e dall’altro di una sorta di genialità malinconica. La genialità porta a guardare al futuro e sperimentare, la malinconia è uno sguardo che tiene conto del passato: è lo stesso mix che ha fatto grande l’industria italiana dell’ultimo secolo». Un esempio di cosa si possa intendere per genialità malinconica l’offre l’opera di Matteo Rubbi (classe 1980). Lui ricrea il logo di Italia 61, la grande kermesse sul Centenario dell’Unità, e per l’occasione distribuisce copie della Stampa del 6 maggio di quell’anno, quando il Presidente Gronchi inaugurò la manifestazione. Oppure il lavoro di Ian Tweedy (classe 1982, nato in Germania ma vive a Milano): ha creato un grande collage con immagini d’epoca sulle imprese dei dirigibili e su un muro ha dipinto in scala 1 a 1 un albero fra i cui rami sembra essersi posato o perduto un maggiolino Volkswagen. La memoria delle sculture sovente orrende che sovrastano le rotonde stradali viene rivisitata dai grandi pannelli, quasi fanta-archeologia, di Santo Tolone. Rossella Biscotti ha realizzato videoinstallazioni sulla tragedia di Cernobyl, partendo dal film d’un giornalista russo. Questi, per testimoniare l’eroismo dei primi soccorritori, girò un documentario poche ore dopo l’esplosione: le radiazioni nel corso degli anni si sono rivelate letali per lui e per metà della troupe.

Quelle radiazioni hanno lasciato macchie qua e là sulla pellicola e questo crea una sorta di corto circuito con le immagini create di Elia Cantori (classe 1984), facendo esplodere petardi sulla carta fotosensibile. L’effetto è sorprendente perché i colori sembrano quelli di alcune pubblicità Anni 60 di Armando Testa. La ricerca di Cantori in qualche modo sposa arte e scienza, e il connubio ritorna anche in altre installazioni. Si va da Rosa Barba che prende spunto dai fenomeni di subsidenza, ossia il lento sprofondare del terreno nei luoghi dove ci sono stati scavi minerari, ad Alberto Tadiello che costruisce una sorta di grande tromba (sembra un po’ quella del marchio «La voce del padrone») dalla quale sperimenta il fastidio di un suono lacerante. La memoria si fa antropologia in Giulio Squillacciotti, che raccoglie immagini e documenti sulla scena punk romana degli Anni 80. A volte le tracce del passato si confondono in oggetti contemporanei: è il caso dei tavoli cui dà vita Martino Gamber facendo a pezzi storici mobili di Giò Ponti, oppure della struttura in legno che Ludovica Carbotta assembla ispirandosi alla cupola della cappella della Sindone del Guarini. Antropologia e nuove tecnologie nel film di Alterazioni video, dove un viaggio in Africa fa scoprire riti arcaici eseguiti da gente che però usa il cellulare.

Il rapporto fra arte e scienza è anche al centro di Temporali, l’installazione di Alberto Garutti che campeggia nella sala a lui dedicata. Al soffitto è appeso un grande lampadario («Ma io preferisco chiamarlo oggetto luminoso» spiega l’artista) fatto di alcuni cerchi di legno con tante lampadine che un po’ rimanda alle luminarie delle feste di paese. L’«oggetto luminoso» si accende ogni qual volta sul suolo italiano si abbatte un fulmine: il marchingegno è infatti collegato via Internet alla rete del Cesi, il centro di rilevamento dei fulmini. «È un modo - spiega ancora Garutti - per far pensare al cielo e ai suoi enigmi. Sul nostro capo succedono cose che noi non immaginiamo. All’artista tocca lanciare esche per richiamare in qualche modo l’attenzione su questi fenomeni». Accompagnano Temporali quattro grandi quadri che ripropongono il percorso di altrettante passeggiate fatte dall’artista, per raggiungere vari luoghi della città. Hanno qualcosa dello spartito musicale quelle sottili linee nere che si avvolgono su se stesse su un fondo rosa. «Mi piace l’idea di lavorare per una committenza - dice ancora Garutti -. In fondo nella storia dell’arte è sempre stato così, solo che un tempo l’unico committente era la Chiesa, oggi il vero committente è il visitatore di una mostra».

Oggi l'inaugurazione della mostra
La mostra «21x21. 21 artisti per il 21° secolo + Alberto Garutti», curata da Francesco Bonami (nella foto), si apre oggi alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino. Realizzata dalla stessa Fondazione e promossa da Confindustria e Unione Industriale di Torino, vuole sostenere la produzione artistica e il percorso dei giovani talenti: «Molte opere sono state prodotte da noi - spiega Patrizia Sandretto Re Rebaudengo - . Ci siamo assunti il rischio di puntare sull’innovazione in campo artistico». La mostra rimarrà aperta fino al 31 agosto.



Rocco Moliterni

miércoles, 24 de marzo de 2010

Pasta mantiene sani, aiuta a prevenire cardiopatie e diabete tipo 2

Argomenti correlati: pasta, prevenzione, salute


La pasta mantiene in salute. La regina delle tavole del Belpaese, infatti, può aiutare a prevenire le cardiopatie o il diabete di tipo 2, ha scoperto un gruppo di ricercatori finanziato dall'Unione europea.

"Se la dieta mediterranea in senso lato - afferma Alfio Amato, dell'unit operativa di Angiologia e malattie della coagulazione del policlinico universitario S.Orsola-Malpighi di Bologna - è riconosciuta come un metodo di prevenzione delle patologie cardiovascolari, nella popolazione più vasta e in particolare nei soggetti a rischio vascolare già noto, la predilezione per la pasta nella dieta quotidiana determina una riduzione sia della presenza che dello sviluppo delle lesioni vascolari maggiori, documentabili con diagnostica ad ultrasuoni".

Anche di questo si parlerà a PastaTrend, il primo salone interamente dedicato a rigatoni, spaghetti e quant'altro, che si terrà a Bologna Fiere dal 24 al 27 aprile (www.pastatrend.com).

Diversi studi, inoltre, hanno dimostrato che l'assunzione sia di frumento integrale che di fibre alimentari di cereali può proteggere dalle malattie croniche spesso dovute alle abitudini sedentarie. Lo scopo del progetto 'Healthgrain' (Exploiting bioactivity of European cereal grains for improved nutrition and health benefits) - che sarà presentato a PastaTrend, il 26 aprile alle 14.30 - è comprendere le attese e gli atteggiamenti dei consumatori, e condurre ricerche avanzate sui composti di frumento integrale che proteggono la salute.

Lo scopo finale del progetto è quello d'ispirare alimenti sani, gustosi e convenienti che contengano questi componenti protettivi in maggiore quantità e posseggano la capacità di prevenire - o addirittura di contrastare - differenti tipi di malattie.

Sono coinvolte oltre 40 organizzazioni di 15 Paesi europei, con un finanziamento di 10,81 milioni di euro.

martes, 23 de marzo de 2010

Sciroppo d'acero per il benessere


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Diversi composti di questo rimedio avrebbero proprietà anticancro, antidiabete e antibatteriche


Sono addirittura 20 i composti chimici trovati nello sciroppo d’acero che ne farebbero un rimedio per la prevenzione di alcune patologie e per mantenere una buona salute. Alcuni di questi composti – 13 per l’esattezza – sarebbero stati scoperti solo di recente e altri 8 solo adesso, per la prima volta, nonostante alcune popolazioni come per esempio quella canadese considerasse fin dai tempi remoti lo sciroppo d’acero un ottimo supplemento per il benessere.

Ora, i ricercatori dell’Università di Rhode Island (Usa), coordinati dal dottor Navindra Seeram, hanno scoperto che molti di questi composti antiossidanti recentemente identificati nello sciroppo d’acero sono anche ritenuti avere effetti anticancro, antibatterici e antidiabetici.
Un rappresentante della federazione delle imprese produttrici di sciroppo d’acero del Canada si è detto entusiasta di questo studio e ritiene che questa scoperta possa far comprendere meglio le qualità gastronomiche e salutari dei prodotti a base di acero del Canada. «Non è solo per il Canada, ma per il benessere dei consumatori di tutto il mondo», ha dichiarato infatti Serge Beaulieu, Presidente della Federation of Quebec Maple Syrup Producers,.

I risultati dello studio sono stati presentati al convegno annuale della American Chemical Society a San Francisco dal dottor Seeram e sono stati commentati ricordando che i risultati delle ricerche recenti rivelano tutta una serie di composti bioattivi che promettono di offrire molti benefici per la salute. Il viaggio verso la comprensione di questi benefici è appena iniziato.
I ricercatori ritengono che la pianta d’acero quando viene incisa per ricavarne la linfa, questi attui un meccanismo di difesa che secerne composti fenolici; in realtà il succo di per sé non conterrebbe che basse concentrazioni di questi composti.
Il fatto curioso, fa notare lo scienziato, è che la gente normalmente non associa un prodotto dolce, anche se utilizzabile in alternativa allo zucchero, a un prodotto per la salute. Ma in genere lo si considera unicamente come un qualcosa da prendere con moderazione o in occasioni particolari. Qui invece, si potrebbe consigliare di metterlo sopra le frittelle per ottenere un effetto sulla salute, ha poi concluso.

sábado, 20 de marzo de 2010

Khoudary: "Colleziono il passato per dare a Gaza un futuro"

Jawdat Khoudary interrompe spesso il discorso, gli occhi semichiusi. Quando le palpebre si risollevano, l’occhio brilla e la frase, finalmente matura, fonde in bocca: «La mia missione è mantenere la speranza che un futuro meraviglioso sia possibile a Gaza». Offre un mandarino del suo giardino, prende un’altra sigaretta, sprofonda il suo corpaccione nel divano e continua la storia della sua vita, la storia di Gaza. Ne è ispirato, letteralmente: le vetrinette di legno scuro del salotto orientale rigurgitano di oggetti che testimoniano la ricchezza del patrimonio sei volte millenario di Gaza, che lui da vent’anni ritrova e colleziona: «Siamo una città e una civiltà molto antiche, ma tutti gli occupanti - egiziani, turchi, britannici, israeliani, per non parlare dei più antichi - hanno saccheggiato la nostra eredità storica».

A cinquant’anni Jawdat Khoudary è un uomo ricco - forse il primo impresario edile e appaltatore di lavori pubblici in Palestina - ma in lui c’è dell’altro: una passione febbrile per far risorgere dal passato lo splendore culturale della sua terra natia. «La mia più grande preoccupazione è che la nuova generazione è isolata, mentalmente e geograficamente, dal resto del mondo. Io devo aiutarla a ritrovare le sue radici».

È un innamorato pazzo, un esteta e al tempo stesso un astuto uomo d’affari, con amici che colma di doni e dei quali sa servirsi. Anis Nacrour, un diplomatico francese, ex consigliere per la cooperazione culturale a Gerusalemme, lo conosce bene: «Jawdat è un mecenate che sa far fruttare la sua fortuna, lavora duro e assume rischi. Ha saputo costruirsi buone entrature con Hamas e con l’Autorità palestinese, con gli israeliani e con gli americani». E di buone relazioni occorre averne, quando lo scopo della vita è salvare il passato archeologico di un territorio alla deriva, governato con pugno di ferro da Hamas e strangolato economicamente da Israele.

Tutto comincia nel 1986 con il ritrovamento, in mezzo ai calcinacci, di un medaglione omayyade che è diventato il suo talismano. Con un amico, Jawdat crea una società di ingegneria civile, la Saqq&Khoudary, oggi assai prospera. I cantieri si susseguono, il denaro arriva in fretta grazie ai contratti con il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo e con l’Agenzia Internazionale di Sviluppo degli Stati Uniti (Usaid) di cui diventa, curiosamente, l’unico fornitore.

Passeggiando lungo i viali del suo giardino lussureggiante, adorno di colonne romane e greche, capitelli, palmeti e limoneti, Khoudary racconta dei casuali ritrovamenti archeologici nei suoi cantieri edilizi. Anche il mare diventerà un’altra fonte inesauribile di vestigia, che i pescatori di Gaza tirano su nelle loro reti. Lui li incoraggia e la pesca alle anfore diventa miracolosa.

Khoudary possiede ormai un tesoro di oggetti che risalgono all’epoca fenicia, assira, persiana, greca, romana, bizantina, islamica. Ma sarebbe rimasto un collezionista privato, di quelli che le sovrintendenze accusano di fare man bassa del patrimonio nazionale, senza un incontro. Che ebbe luogo nel 1996, a Gaza. Padre Jean-Baptiste Humbert, domenicano e archeologo, è professore alla Scuola Biblica di Gerusalemme. Nulla hanno in comune, il collezionista bulimico e lo scienziato erudito, tranne una passione: salvare quello che si può del patrimonio archeologico di Gaza. Dalla loro collaborazione nasceranno una mostra a Ginevra, nel 2007, e un Museo privato a Gaza l’anno dopo.

La mostra ginevrina è stata un successo ma l’ambizioso progetto di creare un Museo Nazionale a Gaza è congelato: il blocco israeliano, le rivalità tra Hamas e Fatah, l’astio del Servizio antichità dell’Autorità palestinese impediscono il ritorno delle opere. La città di Ginevra ha accettato di custodirle fino a quando non ci saranno tutte le condizioni perché la statua di Afrodite di marmo bianco, il gioiello della collezione Khoudary, possa ritornare sulla sponda del Mediterraneo. Aspettando quel giorno, Jawdat si dedica ai suoi affari e al suo museo, dove i bambini di Gaza imparano l’orgoglio di essere gli eredi di una delle più ricche culture del bacino mediterraneo.

Sulla riva del mare, a poca distanza dal campo profughi di Ash Shati e del confine con Israele, Al Math’haf (il museo, in arabo) fa parte di un complesso che comprende un ristorante panoramico e una sala conferenze. Tra qualche mese, grazie al cemento introdotto a caro prezzo lungo i tunnel del contrabbando scavati sotto la frontiera egiziana, un albergo di 36 stanze sarà pronto per accogliere una improbabile clientela... «A volte - dice pensoso Jawdat Khoudary - mi dico che sono pazzo a fare investimenti del genere, poi mi convinco che è una scommessa sul futuro di Gaza». La fortuna e una finezza tutta orientale nel trattare le persone l’hanno sempre aiutato. Ha davvero costruito una moschea per Hamas come prezzo per la sua libertà, come insinua un diplomatico britannico? È il volume dei suoi interessi finanziari in Palestina a spiegare la facilità con cui può entrare e uscire da Gaza?

La Striscia è diventata un’immensa prigione a cielo aperto, dove un milione e 400 mila palestinesi vivono in condizioni spesso miserabili. «Jawdat Khoudary - nota Jean-Yves Marin, direttore del Museo di Arte e Storia della città di Ginevra - ha capito che la costruzione dell’identità di un popolo passa attraverso un museo». Jawdat Khoudary resta a Gaza con la moglie e il figlio più piccolo per inseguire il suo sogno e dimostrare che, nell’avversità, Gaza resta in piedi di fronte al mare.

LAURENT ZECCHINI