sábado, 24 de abril de 2010

Il Sole al microscopio

Si chiama Solar Dinamic Observatory (Sdo) ed è stato inviato nello spazio a febbraio scorso dalla Nasa, l’ente spaziale americano, per studiare i processi dinamici del Sole.


Alcune immagini inviate dalla sonda in queste ore mostrano dettagli mai visti prima del materiale che fuoriesce dal Sole e delle macchie solari e mostrano immagini molto ravvicinate dell’attività sulla superficie solare. “Queste immagini – ha detto Richard Fisher, direttore della divisione di Eliofisica alla Nasa – mostrano una dinamica che non avevo mai visto in 40 anni di ricerca sul Sole”.
Sdo, durante la sua missione che durerà 5 anni, esaminerà il campo magnetico del sole e fornirà una
migliore comprensione del ruolo che il sole gioca nella chimica dell’atmosfera terrestre e sul clima del nostro pianeta. L’attività solare ha una profonda influenza sul nostro pianeta. Le eruzioni più grandi e le emissioni di radiazioni particolarmente intense possono mettere fuori uso satelliti e sistemi di comunicazione e di energia. Le immagini mandate dalla sonda sono 10 volte più chiare di quelle trasmesse dalla televisione ad alta definizione.
Cristiana Pulcinelli

viernes, 23 de abril de 2010

Il giallo della donna ritratta nel Cenacolo

Sforza Galizia: San Giovanni con tratti femminili. La Haziel: nessun travestimento, scelse proprio una donna

Dal Codice Da Vinci agli studi degli esperti

Il giallo della donna ritratta nel Cenacolo
Sforza Galizia: San Giovanni con tratti femminili. La Haziel: nessun travestimento, scelse proprio una donna




Il Cenacolo di Leonardo è uno dei capolavori più noti e studiati al mondo. Il lungo restauro, le condizioni di difficile conservazione dovute ai «vizi d'origine» della parte sulla quale è stato realizzato l'affresco, sono tra gli elementi che negli anni lo hanno riportato all'attenzione del pubblico.
Ma c'è poi un versante legato alle interpretazioni del «linguaggio» di Leonardo che ha attratto,da sempre, molti studiosi. Un filone che, per la quantità di misteri che sembra racchiudere, ha perfino avuto una traduzione «popolare» di grande successo grazie al libro (e al film che ne è stato tratto) Il Codice da Vinci di Dan Brown. Un successo mondiale, quello dello scrittore americano, che ha indirizzato anche le principali attenzioni del pubblico su alcuni particolari dell'affresco. Non necessariamente i più importanti, però. Come quello della «figura femminile» accanto a Gesù, molto funzionale alla ricostruzione di Dan Brawn per la tesi del matrimonio tra Cristo e la Maddalena e la successiva discendenza, mantenuta segreta e protetta dai Templari. Il romanzo fa riferimento sia alla simbologia (la V che si forma tra San Giovanni e il Cristo) sia alla rappresentazione, effettiva, di una donna (la Maddalena) e non dell'evangelista, alla destra di Gesù. Ovviamente la verità romanzata, che pure si basa su ipotesi di studio consultate da Dan Brawn, affascina. Ma davvero, nel suo affresco, Leonardo ha dipinto una donna al posto di San Giovanni?


LO STUDIO SULL'ARAZZO - Panorama, questa settimana, pubblica un'intervista a Sabrina Sforza Galizia, studiosa che pubblica ora un libro intitolato «Il Cenacolo di Leonardo in Vaticano. Storia di un Arazzo in seta e oro», aggiunge nuovi particolari sia sulle profezie astronomiche che la versione leonardesca dell'Ultima Cena conterrebbe, sia sul particolare della figura femminile. La novità è che gli elementi sui quali ha potuto basarsi la studiosa derivano (anche) da un arazzo, copia esatta del Cenacolo commissionata a Leonardo da Luigi XII, custodito ora in Vaticano. In base all'esame dell'arazzo, risultano più chiari tanti indizi sulle profezie «cifrate» nel capolavoro, in particolare il calcolo sulla fine del mondo. E, anche, sulla figura femminile. «Quello di Dan Brawn - dice a Panorama Sforza Galizia - è un pasticcio che ha suggestionato milioni di persone, ma non offre un cifrario per decrittare il messaggio del Cenacolo. Leonardo dipinge davvero San Giovanni con tratti somatici di una donna e lo fa volutamente, perché nel linguaggio che usa San Giovanni è "femmina"». Il motivo? Perché, secondo la studiosa «utilizza la tradizione pittorica che fa uso della dualità maschio-femmina per simboleggiare una disgiunzione astrononomica necessaria per il calcolo dei tempi (...). Complicato? Forse, ma nulla è semplice negli studi su Leonardo. E poi, spiega, la terminologia maschio-femmina vige tuttora anche tra i nostri falegnami ed elettricisti e rispecchia un termine tecnico applicato anche all'astronomia».

«GIOVANNINA , VISO FANTASTICO» - Certamente i lettori di Dan Brawn e quanti che hanno visto il film si saranno sorpresi di sapere che nel Cenacolo fosse rappresentata una donna. Magari hanno pensato anche a una forzatura romanzesca. Invece la «presenza» femminile era già nota agli studiosi. Diversa cosa è attribuirle poi significati precisi e legati a messaggi cifrati. Le spiegazioni per la presenza della figura femminile possono essere anche altre. E persino molo più semplici, perché lasciate dallo stesso maestro nei suoi scritti. «Per trovare i volti degli apostoli - spiega infatti Vittoria Haziel, studiosa dell'opera leonardesca - Leonardo girava per le strade di Milano e segnava appunti sui suoi manoscritti sulle figure incontrate. Per una di queste egli scrive chiaramente che si tratta di "Giovannina, viso fantastico sta a Santa Caterina allo spedale"». Non si sa se si trattasse di un'infermiera o di una malata. Ma secondo la Haziel, che ha pubblicato di recente il libro «La Confessione di Leonardo» è proprio lei che dà origine alla figura alla destra di Gesù. «Questo appunto si trova infatti proprio sotto a quello della figura che ispira Cristo, o meglio Crissto, con due esse, come scrive Leonardo: "Giovan Conte, quello del cardinale del Mortaro". «Nessun apostolo "travestito" da donna quindi - conclude la Haziel - ma una donna vera e propria».


Informazione del Corriere della sera

martes, 20 de abril de 2010

Lo stress influenza l'evoluzione genetica

Scoperta da uno studio della Sapienza di Roma la proteina dello stress


L’ambiente, in particolare i fattori di stress, possono cambiare il genoma degli organismi e quindi incidere direttamente nello sviluppo e nell’evoluzione delle specie? L’interrogativo ha un peso determinante nelle teorie evoluzionistiche che, nella formulazione darwiniana classica, attribuiscono all’ambiente un ruolo esclusivamente di selezione. La risposta è stata ora trovata in una proteina: la Hsp90 (Heat Shock Protein - Proteina da shock termico) responsabile del comportamento di alcuni elementi genetici presenti nei cromosomi.

La scoperta, pubblicata sulla rivista Nature,è stata realizzata dal gruppo di ricerca coordinato dal professor Sergio Pimpinelli, direttore del dipartimento di genetica e biologia molecolare della Sapienza, in collaborazione con le Università di Lecce e di Bari, che ha studiato appunto i meccanismi di funzionamento della proteina Hsp90.

La Hsp90 è essenziale per la corretta funzionalità di molte classi di proteine coinvolte nei processi di moltiplicazione e differenziamento cellulare. Per questa ragione Hsp90 è uno dei bersagli di molteplici approcci sperimentali per la cura dei tumori. Questa proteina è stata studiata soprattutto nei processi cellulari scatenati da vari tipi di stress ambientali come l’elevata temperatura nei quali essa ha la funzione di aiutare altre proteine ad acquisire una corretta conformazione, preservando l’integrità della cellula.

Studiando i meccanismi d’azione della Hsp90 i ricercatori della Sapienza hanno individuato il comportamento della proteina nei confronti di elementi genici mobili, i trasposoni. Questi sono segmenti di DNA, simili a particelle virali, che si spostano da una zona all’altra del cromosoma causando una mutazione. Nel corso dell’evoluzione essi hanno sicuramente avuto un ruolo importante nella creazione di modificazioni e variabilità genetica.

Mentre normalmente la Hsp90 funziona da silenziatore dei trasposoni per bloccare eventuali mutazioni che potrebbero causare sindromi genetiche e trasformazioni cellulari, in condizioni di stress questa funzione viene inibita. Ciò significa che lo stress, sottraendo i trasposoni dall’azione di controllo della proteina Hsp90, agisce da semaforo verde al loro spostamento nel genoma.
I risultati dei ricercatori della Sapienza, oltre a rafforzare l’idea dell’importanza della Hsp90 come target di elezione per la terapia dei tumori, hanno fornito, per la prima volta, le basi molecolari per la dimostrazione di un concetto evolutivo (la canalizzazione) basato sull’idea che l’organismo sia la risultante dell’interazione tra informazione genetica e ambiente, concetto già formulato da Conrad H.

domingo, 18 de abril de 2010

Scoperto il vulcano sottomarino più profondo del mondo

È situato nei Caraibia 5.000 metri di profondità


Si chiama Black Smoker, “fumatore nero” ed è il vulcano sottomarino più profondo del mondo. Lo ha scoperto una spedizione britannica a 5.000 metri di profondità nella fossa di Cayman, la catena montuosa che si estende a 7.600 metri sotto il livello del mare, fra la Giamaica e le Isole Cayman.

Non emette lava, ma acqua bollente, a una temperatura talmente elevata (250-300°C) da poter fondere senza problemi il piombo. Anche la pressione dell’acqua che circonda il vulcano è impressionante: 500 volte più forte della normale pressione atmosferica. Il Black Smoker è stato individuato grazie al robot sottomarino AutoSub6000, progettato dagli ingegneri del National Oceanographic Center (Noc) di Southampton e telecomandato dalla superficie da un gruppo di scienziati ospitati a bordo della nave di esplorazione oceanica James Cook. In seguito, è stato utilizzato un altro veicolo sottomarino, chiamato HyBIS, per filmare i ritrovamenti.
“È stato come esplorare la superficie di un altro mondo - ha detto Bramley Murton, il geologo del Noc, che ha teleguidato il dispositivo – i colori arcobaleno delle acque e l’azzurro fosforescente dei tappeti di microbi che le ricoprivano, non assomigliavano a niente che avessi già visto”.

Il “fumatore nero” non è l’unica sorgente di questo tipo a essere stata scoperta, i primi esemplari del genere sono stati individuati tre decenni fa nel Pacifico; la maggior parte di essi si trova però a profondità molto inferiori, attorno ai 3.000 metri. Nei pressi del vulcano, gli scienziati hanno scoperto l’esistenza di numerose creature degli abissi, degli esseri che sembrano sfidare, con la loro sopravvivenza in un ambiente così ostile, le regole stesse della biologia.

Lo staff del progetto ritiene perciò che studiando le forme di vita che vivono a queste profondità, si possano ricavare indizi su come ha avuto inizio la vita sulla Terra e addirittura sulla possibilità di vita su altri pianeti, dove esistono condizioni ambientali simili. L’esplorazione del vulcano, condotta all’interno di un progetto di studio del Consiglio per le Ricerche sull’Ambiente Naturale del Regno Unito, continuerà fino al 20 aprile; l’equipaggio condividerà le sue scoperte postando foto e video sul sito Internet del progetto, Thesearethevoyages.net.

FEDERICO GUERRINI

jueves, 15 de abril de 2010

Studio svedese, Internet efficace contro depressione e panico

L'aiuto basato su sessioni online funziona come l'approccio faccia a faccia



La terapia telematica per disturbi come la depressione e le crisi di panico risulta essere efficace quanto i normali trattamenti faccia a faccia, secondo quanto afferma uno studio svolto dalla Swedish Medical University Karolinska Institute (KI), di cui dà notizia il Global Times.

I ricercatori hanno sottoposto un gruppo di 104 pazienti affetti da depressione e ansia ad un programma di aiuto basato su sessioni di autoterapia via Internet, accompagnati dal supporto del terapista via e-mail. Una prassi completamente diversa dall’approccio "normale" per la terapia cognitivo-comportamentale, basato su rapporti faccia a faccia e gruppi di sostegno. I risultati del nuovo studio hanno però dimostrano che non si hanno differenza significative tra i due metodi, anche nel periodo di sei mesi successivo alla cura.

È stimato che la depressione colpisca circa il 15% della popolazione e le crisi di panico il 4%. Sono patologie che condizionano fortemente la vita di chi ne è affetto, includendo numerosi sintomi come oltre all’umore negativo anche senso di colpa, letargia, difficoltà di concentrazione, disturbi alimentari e insonnia.

«La terapia cognitivo comportamentale basata su Internet è anche più conveniente rispetto alla terapia di gruppo- ha commentato Jan Bergstrom, un ricercatore presso il Centro di Psichiatria di ricerca del Ki - I risultati ottenuti sottolineano la necessità dell’introduzione regolare di internet nel trattamento psichiatrico riguardo a patologie come la depressione e l’ansia».

martes, 13 de abril de 2010

Le cattive ragazze degli Anni Settanta

Vestita da bad girl entra in un cinema porno pieno di maschi, ha un mitra in mano, uno strappo triangolare nei jeans e il pube bene in vista. È il 1969, Valie Export, l’artista austriaca che l’anno precedente aveva portato al guinzaglio un uomo a quattro zampe per le strade di Vienna, si avvicina agli spettatori e chiede loro di fare ciò che desiderano con il suo sesso. Gli uomini, anziché eccitarsi, si imbarazzano e lentamente abbandonano la sala. Altro scenario: Los Angeles, tra il 18 ottobre e il 29 novembre 1977, dieci donne vengono stuprate e strangolate. Alcuni mesi più tardi due artiste, Suzanne Lacy e Leslie Labowitz, organizzano una performance davanti al Woman's Building di Los Angeles. Dieci attrici vestite a lutto salirono sul retro di un carro funebre scortato da motociclette e da ventidue macchine piene di donne. Viene srotolato uno striscione che dice: «In memoria delle nostre sorelle, le donne reagiscono». È una dichiarazione di guerra alla violenza di genere.

La mostra «Donna: Avanguardia femminista negli Anni 70», dalla Sammlung Verbund di Vienna, curata da Gabriele Schor, ricostruisce l’allarmante scenario della sovversione femminile contro il silenzio, la mistificazione e l’isolamento sociale. Gli strumenti utilizzati dalle artiste sono fotografia e video. Il supporto è il proprio corpo, nudo o travestito, in performance pubbliche o private. Per la prima volta nella storia si formano gruppi femministi organizzati dall’impatto dirompente, anche se, sul mercato, dei loro lavori quasi non resterà traccia. Uno dei punti vulnerabili ricorrenti è quello dell’identità: Martha Wilson impersona la lesbica, la professionista, la hippy.

La barbuta Eleanor Antin, travestita da re seduto al bar, s'infiltra come un personaggio surreale nel quotidiano, mentre Brigit Jurgenssen si traveste da bestia e Ana Mendieta applica una barba vera al proprio viso. Nel percorso in bianco e nero della mostra si giunge poi ai personaggi giovanili interpretati da Cindy Sherman. La necessità impellente e drammatica di uscire dai ranghi si manifesta oltre che nel cambiamento dell'identità, nella provocatoria nudità del corpo. Il movimento è frammentato e radicale e trasmette un profondo senso di disagio.

Le opere non sono commercializzabili, perché troppo crude e lucide. Alcune artiste hanno appena il tempo di vivere la loro fulminea stagione come Ketty La Rocca, con la sua comunicazione intima e gestuale, che muore a trent'anni; o Hannah Wilke, che accusata dalle altre femministe di esibire in modo troppo ambiguo la propria nudità, non rinuncia a mostrare il corpo anche quando sarà irrimediabilmente deformato dalla malattia. Francesca Woodman rimarrà un'apparizione misteriosa, come se il suo ambiente domestico, nella mimesi da lei ripetutamente inscenata, l’avesse effettivamente risucchiata.

MANUELA GANDINI

miércoles, 7 de abril de 2010

Nei negozi Usa c'è l'iPad, grande scommessa Apple

In tanti, dandone per scontato il successo planetario, vanno già alla domanda successiva: in quale misura l’iPad cambierà il nostro vivere quotidiano? Altri, scettici o realisti fate un po’ voi, si pongono ben diverso quesito: ma in fondo l’iPad a che cosa serve? Con il paradosso che le stesse due domande frullano da sabato scorso nella testa delle moltissime persone che negli Usa corrono ad acquistare l’ultima creatura partorita dalla fervida mente di Steve Jobs, lo storico patron di Apple. Eh sì, perché della reale utilità di questo inedito dispositivo ci si potrà fare un’idea attendibile soltanto nelle prossime settimane, quando prenderà forma l’“ecosistema” digitale ad esso dedicato, lo stesso che negli anni più recenti ha decretato l’incredibile successo dell’iPhone.

Uno dei primi acquirenti dell'iPad all'uscita dell'Apple Store di San Francisco

Eppure, come detto, nonostante i dubbi attuali in tanti si sono precipitati nei negozi per "conquistare" l’oggetto, 499 dollari il costo del modello base Wi-Fi per superare gli 800 dollari dell’imminente versione 3G, praticamente sulla fiducia, e lo stesso faranno probabilmente tanti italiani a partire dalla fine di aprile. Fiducia nella Apple e in Jobs, che negli ultimi anni hanno letteralmente cambiato il volto dell’elettronica “in movimento” prima grazie all’iPod e poi al citato iPhone.

Nel caso dell’iPad, però, la scommessa appare ancor più ambiziosa. Se iPod e iPhone rivoluzionavano forma ed utilizzo di dispositivi già esistenti, il riproduttore musicale portatile ed il telefono, l’ultimo nato vuole addirittura creare una nuova famiglia di dispositivi. Per le sue caratteristiche, infatti, l’iPad si differenzia da qualsiasi altra tipologia di device elettronico. Chi lo ha già fatto suo, si trova di fronte ad un congegno di tipo tablet spesso poco più di un centimetro, praticamente a tutto schermo (un display touch da 9,7 pollici), che pesa 700 grammi ed offre un’autonomia superiore alle 10 ore.

L'iPad ha uno spessore di poco superiore al centimetro

Forte di queste caratteristiche hardware, l’iPad consente agli utenti di guardare video, ascoltare musica, giocare, navigare in Internet e leggere libri elettronici nonché riviste e quotidiani. Funzionalità che nella quotidianità lo candidano a sostituire di volta in volta dispositivi o prodotti già esistenti. Sempre che l’utente decida di privarsi di quest’ultimi a suo beneficio. E qui entrano in scena gli scettici di cui sopra, i quali sottolineano come per quanto seducente la creatura di Jobs abbia al momento diversi punti deboli, come la mancanza di fotocamera, alloggiamento per le schede di memoria e collegamento USB, mentre a livello software sottolineano l’impossibilità di gestire più applicazioni contemporaneamente (il cosiddetto multitasking) e quella di visualizzare siti di video che usano il diffuso software Flash di Adobe.

In realtà, a fare la differenza in un senso o nell’altro sarà la forza con cui si svilupperà il citato ecosistema digitale. A fare la fortuna dell’iPhone, infatti, ci sono soprattutto le circa 150.000 applicazioni sviluppate da terze parti per “girare” sul telefono Apple, programmi che potranno essere installati anche sull’iPad, sebbene con limitazioni sul fronte della visualizzazione e dell’operatività. Se lo stesso proliferare di applicazioni espressamente dedicate si scatenerà intorno a questo tablet, allora la scommessa commerciale potrà dirsi vinta. Ma un indizio di come andrà a finire arriva anche dalla concorrenza: dispositivi concettualmente simili all’iPad stanno per essere lanciati da HP/Microsoft e da Dell, e c’è chi scommette pure su Google. insomma, in caso di insuccesso, Steve Jobs si ritroverebbe in eccellente compagnia.

Marco Ventimiglia

sábado, 3 de abril de 2010

Il fiume Reno ha 90 km di meno...

Non è stato un errore di misurazione.

Molto più semplicemente, a quanto pare, si è trattato di uno scambio di cifre.

Per quasi un secolo libri ed enciclopedie tedesche hanno riportato un dato sbagliato. Generazioni e generazioni di studenti hanno imparato a scuola che il Reno, uno dei maggiori fiumi d’Europa, che nasce in Svizzera, sfocia in Olanda e attraversa tutta la Germania, è lungo 1.320 chilometri. Ma è un errore. Un biologo dell’università di Colonia ha rivelato la scorsa settimana che il fiume è più corto di 90 chilometri: è lungo 1.230 km, come lo riportavano fonti più vecchie di 100 anni.

Una banale svista nella trascrizione sembra essere all’origine della cantonata del secolo. Prima dei computer, infatti, erano i contabili e i ragionieri che dovevano sommare a mano lunghe colonne di numeri e verificarne più volte l’esattezza. Sebbene si servissero talora di una calcolatrice, spesso accadeva che al secondo controllo la somma non corrispondesse. Un buon ragioniere lo sa. La principale causa di errore è abbastanza ricorrente: si tratta di uno scambio di cifre. I tedeschi poi, hanno la mente particolarmente allenata a questo tipo di scambi. La lingua stessa lo impone. Basta pensare che i numeri si leggono al contrario. Per dire, per esempio, «trentanove», si dice «nove e trenta».

Sempre uno scambio di cifre è stato, in tempi più recenti, all’origine di quella che è conosciuta come la versione tedesca della «Pizza Connection». Nel 2003 Michel Friedman, un popolare conduttore televisivo, era finito in un grande scandalo di traffico di droga per un errore banale del suo studio legale che nel momento di mandare documenti altamente riservati via fax aveva sbagliato a comporre il numero. Le informazioni segrete erano finite nel retrobottega di un panettiere scaltro, che le aveva vendute al quotidiano sensazionalista Bild. Ed è con questo schema, in un momento imprecisato nel passato, che fra gli 80 e i 100 anni fa qualcuno ha commesso un errore di trascrizione, chissà se accompagnato da un lapsus o da una mania di grandezza: i 1.230 chilometri sono saliti a 1.320.

L’errore è stato scoperto la scorsa settimana dal biologo Bruno Kremer, dell’Università di Colonia. L’esperto stava facendo uno studio su quello che rappresenta il più navigabile dei fiumi tedeschi, quando si è scontrato con dati discordanti. «Mi sono accorto che nelle pubblicazioni dell’inizio Novecento il Reno veniva citato con una lunghezza inferiore di quella di adesso, 1.230 chilometri appunto, quando invece tutte le enciclopedie moderne e i dati del Governo attuali riportavano 1.320», ha spiegato Kremer al quotidiano Süddeutsche Zeitung. «Sono andato avanti con le ricerche e ho raccolto in tutto una cinquantina di fonti sulla lunghezza del fiume. Si dividevano esattamente su queste due posizioni. La discordanza non mi dava pace. Decisi di trovare la ragione». Per uscire dal dubbio, Kremer è andato alla radice del problema e ha rimisurato il corso del fiume. Ha fissato il «punto zero», nella città di Costanza, che coincide con l’inizio del fiume nel territorio tedesco. Ha poi misurato l’estensione fino a Hoeck von Holland, la località in cui il Reno sfocia nel Mare del Nord. La misurazione di questo tratto ha dato come risultato 1.032 chilometri. Successivamente, ha aggiunto l’estensione del lago di Costanza e, infine, la parte svizzera del fiume. Il risultato è stato di 1233 chilometri. «Abbiamo raffinato i calcoli e siamo arrivati in un secondo momento a 1.232», ha spiegato Ankie Pannekoek, portavoce del dipartimento idrico del governo olandese. «Anche noi nelle nostre pubblicazioni riportiamo il numero 1320, nonostante abbiamo sempre avuto un dubbio», ha aggiunto Alfred Hommes, portavoce dell’istituto federale di idrologia tedesco. In questo mese la commissione di idrologia dell’area del Reno si riunirà per controllare nuovamente l’estensione reale del fiume. «Se sarà necessario, faremo una correzione ufficiale», ha assicurato Hommes. Ora è il momento di cercare l’origine del problema. Mentre sarà difficile arrivare a un diretto responsabile, si può circoscrivere un periodo storico e delineare un prima e un dopo.

Secondo la Süddeutsche Zeitung, la cifra errata compare per la prima volta negli anni ’30. Le edizioni dell’enciclopedia Brockhaus del 1903, della Herder del 1907 e della Meyer del 1909 attestano infatti la cifra di 1.230. Invece l’enciclopedia Knaur del 1932 riporta, forse per la prima volta, la lunghezza sbagliata di 1.320. Nella Brockhaus, l’errore appare per prima volta nel 1933 e si ripete in tutte le edizioni fino ad oggi. L’ipotesi dell’inversione delle cifre sembra essere la più probabile, perché mentre l’errore sulla lunghezza è stato tramandato e ripetuto infinite volte (in tutti i siti italiani figurano 1.320 chilometri) i valori parziali (vale a dire la misura del tratto svizzero e quella del tratto tedesco) vengono spesso riportati correttamente. Il museo del Reno ha già proceduto a modificare la cifra. L’enciclopedia Brockhaus ha assicurato che lo farà nella prossima edizione e dopo i nuovi accertamenti. Anche tutti i libri scolastici dovranno cambiare: in classe insegnanti e ragazzi dovranno accontentarsi della misura più bassa. Laura Lucchini

viernes, 2 de abril de 2010

To be or not to be: inglese, tu m'hai provocato...

tutti gli articoli dell'autore C’era una volta «trend negativo» e c’è ancora. Moltiplicato per briefing, feedback, brunch.

Perché in barba a Nanni Moretti gli italiani, ormai, taggano, mandano poke, hanno un background, fanno stage. Così che parlare l’italiano vuol dire inciampare in un prestito linguistico per ogni frase pronunciata: «Oggi sto davvero down», «Il prossimo week vado in montagna», «Domani sono out». Prendiamo in prestito parole dall’inglese scomodandolo in continuazione neanche fossimo sul lastrico. «È un fenomeno non contrastabile, - spiega Alessandro Serpieri, professore emerito di Letteratura Inglese presso l’Università di Firenze, il più grande traduttore di Shakespeare vivente - l’inglese è diventata la lingua franca per la forte presenza culturale americana, più che inglese, e perché è la lingua che impera su internet». Così mentre i francesi «cercano di mettere un freno: loro hanno un entroterra purista», noi italiani siamo "dirty" fino al midollo. L’ordinateur per noi è un computer e «le Sida» si chiama Aids, anche se per sciogliere l’acronimo dobbiamo pensare al contrario: acquisita immuno deficienza sindrome. E nessuno lo sa fare. Che sarà mai, tutto sommato, l’importante è sapere cos’è. Bello, bellissimo lo scambio culturale e linguistico, l’apertura generosa verso l’altro. Troppo nazionalisti i france e troppo retrò gli spagnoli che addirittura chiamano la serie televisiva americana Perdidos anziché Lost, e il divo Tom Crusero. Noi italiani – Moretti a parte - siamo decisamente più cool. Eppure, se l’atteggiamento conservatore dei francesi per la loro lingua può tradurre una forte identità nazionale. Se quello spagnolo suona come i nostri vecchi libri di Storia, dove Thomas More era Tommaso il Moro, e che dire di Francesco Bacone. Anche lo sbracamento italico di fronte a Your Majesty The English language avrà qualche pummarola n’goppa. Si legge, per esempio, nei dati dell’Istat che tra gli italiani solo il 5,1 per cento parla un’altra lingua (dati del 2007). Imbarazzante: ce l’abbiamo sempre in bocca, ma non lo sa parlare nessuno.

«È ancora parlato e pronunciato male da noi perché non c’è stato un investimento massiccio da parte della scuola nell’apprendimento dell’inglese. – interviene ancora il noto anglista - Anche in Francia, per esempio: i francesi lo parlavano malissimo, ma nonostante il purismo, adesso lo parlano molto meglio». In Italia, invece, la pen is ancora on the table, e da lì non sembra voler muoversi. Quel che rubiamo, poi, è spesso rubato male: se l’indomani non dobbiamo lavorare, in inglese si direbbe che è un giorno off, per esempio, e non out. Mentre stage, che pronuciamo steig, in inglese è utilizzato per indicare un palco o una fase sì, ma non esattamente un apprendistato. Lo prendiamo in prestito, in realtà, dal francese, e lo acclimatiamo a regole di pronuncia di un’altra lingua ancora: un esempio di prestito acclimatato che avrebbe acceso gli appetiti di Ferdinand de Saussure. Monica Lewinsky, in poche parole, non era una stagista, perlomeno non in inglese, ma una trainer o una fortunata vincitrice di una internship alla Casa Bianca. E tutta l’Italia, da Facebook in poi, si chiede cosa mai sia un poke. Lo parliamo poco e male, è vero, ma col giusto business plan e un serio briefing a vendere la fontana di Trevi ci impiegheremmo un attimo. Ci traduciamo in inglese così in modo perfetto: «Facciamo cose, vediamo gente».

Ecco il nostro modo di parlarlo, un po’ spaccone e un po’ cialtrone, tutto wisky, soda and rock n’roll. «Un fenomeno adolescenziale», per Serpieri, frutto dell’americanizzazione della società italiana nel secolo scorso, quando la fine della seconda guerra mondiale mutò del tutto l’atteggiamento degli italiani nei confronti della lingua degli yankee, passando da pose xenofobe alle braccia spalancate dagli eventi bellici e dal cinema. Non ci resta che piangere? Forse, ma preferiamo riderne. C’è, infatti, un nuovo fenomeno (o trend) tutto italico che dice di più sul carattere nazionale: «Who doesn’t risica, doesn’t rosica», oppure «less bad», per «chi non risica non rosica» e «meno male». Perché se sei italiano vuoi ballare il rock ‘n roll, giocare a baseball e tradurre tutto in un gioco. Impazza su internet ma è una moda ovunque, si trasformano modi di dire o detti dialettali traducendoli alla lettera sdrammatizzando la lingua di Elisabetta I in puro divertimento. Un fenomeno spontaneo e regionale. I siciliani - che su internet registrano il numero più alto di siti che elencano detti dialettali, ben 2 milioni e 200mila – si traducono, per esempio, così: «beautiful mother» (bedda matri), «every little liver of fly makes substance» (ogni ficateddu i musca fa sustanza/ ogni cosa, anche il fegato di una mosca fa sostanza). E si gioca anche sui nomi, così che Forte Petrazza a Messina è ormai Fort Rock, mentre il quartiere catanese Librino è diventato little book.


Ma il fenomeno non è solo siciliano e il dileggio dell’inglese spopola nelle pagine web di tutta la penisola. Sara, dalla provincia di Frosinone, in una nota su facebook crea un dizionario ceccanese-inglese: «you told me turn me this donkey» (m'hai ditt giramu st'asn), «even the flea have a cold» (pur l puci tenn la tossa), per fare qualche esempio. Ancora su facebook, questa volta in Puglia, «proverbi anglo-gravinesi», è il titolo del topic dove si legge: «it's better a drunk to a fountain, that a cock-beat to a bitch» (Iè megghij na bvut a na funden, ca n'acceddet a na putten), o «The devil has put on in front of my eyes» (sè miis u diavhl nanz all'occhij). Nella freeforumzone di Leonardo si trovano, invece, esempi dal veneto: «Look sometimes» (Varda dee volte). E non poteva mancare «You're out like a balcony» (sei fuori come un balcone). Né il romanesco: “But go to die killed” (ma và a morì ammazzato), o «I don’t care of less» (non me ne po’ fregà de meno). Roba da fare rivoltare John Florio nella tomba, che già nel ‘500 tradusse i proverbi italiani – ma non per scherzo – in inglese, «molti detti e proverbi inglesi hanno attinto all’opera di Florio, perciò ai detti italiani, così che nei proverbi inglesi troviamo delle precise trasposizioni di quelli italiani». Ma tradurli alla lettera non è che un gioco, e chissà che non sia stato William Shakespeare in persona ad anticiparlo, quando prese dal siciliano «Tantu trafficu pi nenti» lo spunto per il suo «Much ado about nothing», ovvero «Molto rumore per nulla» (ambientato, infatti, a Messina). Così, anche il grande traduttore si presta: «I’m of the cat: sono di gatto. – propone Serpieri - Espressione usata a Firenze per dire che si è nervosi».

Fenomeno che dice molto sulla nostra identità, ancora così regionalizzata, frutto di un passato fatto di frammentazione, perciò ben lontano dai francesi, è chiaro. Ma attenzione, regione per regione i detti cambiano - non sempre -, e le traduzioni pure, ma il fenomeno è uguale dappertutto: è nato in italì, non ci sta nothing to do’.

Manuela Modica