sábado, 31 de enero de 2009

Gli strani materiali che avremo nel futuro


Gli strani materiali che avremo nel futuro
Le invenzioni più bizzarre (ma utili) sviluppate da aziende Usa che potrebbero essere usate in vari gadget


MILANO - Esistono materiali veramente molto strani. Alcuni, come la carta di minerali, sembrano una contraddizione in termini. Eppure le aziende più innovatrici stanno investendo molto sul loro sviluppo, per isolare, per non inquinare, per motivi estetici o per ragioni nobili. La webzine Popular Mechanics propone una rassegna delle 16 novità di questo settore, ipotizzando un loro utilizzo nel presente e nel futuro.
ALCUNI ESEMPI - C'è l'inchiostro magnetico, un vetro che cambia colore a seconda della temperatura, una pellicola anti-graffiti e la carta elettronica. Troviamo poi le fibre di ceramica, dalle proprietà isolanti e refrattarie, utilizzate per combattere le temperature estreme, e le piastrelle contenenti fibre ottiche che, permettendo alla luce di passare, vengono impiegate nelle piscine illuminate o nelle pareti iridescenti. Esiste inoltre una carta a nido d'ape molto adatta a certi imballaggi, in quanto può essere piegata in tutte le direzioni e ha doti di particolare flessibilità. La fotogallery descrive anche delle particelle luccicanti e commestibili che vengono impiegate in cucina, regalando ai piatti un aspetto molto kitsch. Infine, forse l'oggetto più strano, esiste una carta che per essere prodotta non ha alcun bisogno di fare stragi di legno e di foreste: si tratta della cosiddetta stone-paper, prodotta interamente con carbonato di calcio.
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Emanuela Di Pasqua

lunes, 26 de enero de 2009

Scoperto "magazzino" del cervello


ROMAScoperto il “magazzino d’emergenza”, nel cervello, per le informazioni in arrivo. La costruzione della memoria è un processo piuttosto lento, perciò i nuovi dati vengono conservati nei neuroni della parte frontale del cervello. Ogni singola cellula ne mantiene traccia per un minuto o anche di più. È la conclusione dei ricercatori della Southwestern University del Texas, che pubblicano il loro lavoro online e sul numero di febbraio di Nature Neuroscience. Lo studio è stato condotto sui topi. Secondo l’equipe, coordinata dallo psichiatra Don Cooper, gli input che colpiscono il cervello, rapidi come un flash dalla durata di meno di un secondo, attivano un processo di memorizzazione nelle singole cellule nervose che dura circa un minuto. Un processo battezzato “trasmissione del glutammato metabotropico”, che, nella regione cerebrale più evoluta, immagazzina le informazioni di momento in momento. Questi risultati hanno notevoli implicazioni sulla comprensione della memoria a breve termine, quella più sensibile agli effetti dell’alcol o alle distrazioni circostanti. «È come la Ram di un computer - spiega Cooper - che viene immagazzinata temporaneamente ed è “riscrivibile”, per permettere più operazioni, a differenza delle informazioni conservate su un dischetto». I ricercatori hanno esaminato l’attività delle cellule cerebrali dei topi utilizzando elettrodi “ad hoc” per misurare il processo di formazione della memoria, cogliendo appunto le differenze fra quella a breve termine e la costruzione di quella permanente. Il prossimo passo sarà capire come questo processo è collegato con la dipendenze da sostanze o comportamenti.

viernes, 23 de enero de 2009

Bologna :DA OGGI A LUNEDI'

In vetrina moderno e contemporaneo

Si inaugura oggi pomeriggio nei padiglioni di Bologna Fiere e rimarrà aperta fino a lunedì la 33ma edizione di Arte Fiera, la mostra-mercato internazionale d’arte moderna e contemporanea. In un nuovo allestimento dal taglio più «museale» (la novità è il padiglione 15 di recente costruzione, dove tra l’altro ci sarà un ristorante gestito da Uliassi), la kermesse diretta da Silvia Evangelisti (nella foto) ospita accanto a gallerie internazionalmente note, sia italiane e che straniere, una selezione di giovani gallerie che non superano i 5 anni di attività scelte per la novità e la qualità degli artisti presentati. La manifestazione permetterà di fare il punto sulla situazione di un mercato che cerca di reagire ai colpi della crisi economica. Fitto come sempre il programma di incontri dedicati ai agli aspetti e agli sviluppi del collezionismo d’arte nelle sue diverse forme pubbliche e private, con interventi di collezionisti e direttori di musei. In occasione della kermesse prende il via domani la quarta edizione di Bologna Art First, un percorso in luoghi del centro storico della città, attraverso installazioni e opere di artisti rappresentati dalle gallerie che espongono in Fiera. Tra gli altri eventi al Mambo, il museo d’arte moderna di Bologna, approda la mostra antologica dedicata a Giorgio Morandi, in arrivo al Metropolitan Museum di New York. Sabato sera gennaio ci sarà la notte bianca dell’arte contemporanea. Info www.artefiera.bolognafiere.it

Ngozi Adichie, la fine di un sogno chiamato Biafra

«Metà di un sole giallo» (trad. di Susanna Basso, pp.450, euro 19,50, Einaudi) è il secondo romanzo di Chimamanda Ngozi Adichie, la giovane nigeriana ibo che a poco più di 30 anni vince il Premio Nonino.Chimamanda Ngozi Adichie fa parte di una nuova generazione di narratori africani che frequentano il mondo universitario e letterario euroamericano e però intendono mettere - o, meglio, mantenere - radici narrative nella propria tradizione originaria, come fa anche il venticinquenne Uzodinma Iweala in Bestie senza una patria, anch’egli ibo e anch’egli pubblicato in Italia da Einaudi. La Adichie è qui alla sua seconda prova narrativa, che viene dopo Ibisco viola, clamoroso successo internazionale, portato in Italia da Fusi Orari nel 2006. Metà di un sole giallo ha la fortuna di avere come traduttrice la bravissima Susanna Basso, che rende al meglio la prosa dell’originale, mentre nel caso di Iweala c’era stata una disastrosa versione che aveva reso il linguaggio innovativo dell’autore in un italiano sgrammaticato simile a quello parlato da africani che stessero faticosamente imparando la nostra lingua.Metà di un sole giallo deriva il titolo dal simbolo al centro della bandiera del Biafra: appunto un sole levante, a significare un nuovo inizio per quello che avrebbe voluto essere un nuovo paese indipendente dalla federazione nigeriana. Il tema si svolge tutto intorno a questo filo della speranza che sorge e per cui si combatte, e che però alla fine annega nella sconfitta. Le vicende si giocano a partire dai primi anni Sessanta e sino alla fine del decennio, con puntuale esattezza storiografica, attraverso una serie di personaggi portanti. I protagonisti sono le due sorelle gemelle Olanna e Kainene, figlie di un ricco imprenditore ibo, e i loro partner, l’ibo Odenigbo, un intellettuale dalle idee «rivoluzionarie» che insegna matematica all’università di Nsukka, e l’inglese Richard, giunto in Nigeria perché innamorato dell’arte ibo e poi identificatosi con la causa del Biafra. Il romanzo si svolge interamente in area biafrana e l’epicentro è Nsukka, dove la casa di Odenigbo e poi anche di Olanna diventa ritrovo di un gruppo di amici e luogo di acceso dibattito culturale e politico. Accanto a queste figure principali ci sono da un lato le loro famiglie, con il portato tradizionale (Odenigbo) o modernizzatore (Olanna e Kainene), e dall’altro i loro servitori, Harrison per Kainene-Richard e Ugwo per Odenigbo-Olanna.Storie intrecciateL’intreccio combina abilmente le vicende personali dei personaggi - amori, tradimenti, rancori e rappacificazioni - con gli avvenimenti drammatici che hanno segnato la storia del Biafra e della Nigeria in quegli anni. Sullo sfondo, con rilievo maggiore o minore, a seconda dei casi, si muovono un gran numero di figure che, sebbene meno importanti, sono tratteggiate con vivezza e incisività, caratterizzando la cultura del luogo e dell’epoca e la sua risposta alla tragica emergenza bellica. Fra tutte loro emerge Ugwo, fedelissimo a Odenigbo e Olanna, che finisce catturato nella coscrizione obbligatoria dell’ultimo periodo della guerra e assaggia l’allucinante condizione di quell’esercito, ormai dominato da mercenari deliranti e ragazzini drogati.La storia della guerra si apre con una serie di stragi di cittadini di etnia ibo condotte dovunque nel paese, e si conclude con la distruzione della regione del Biafra e la resa per fame della popolazione ibo, con l’esercito federale che avanza (nel romanzo i nigeriani vengono chiamati «vandali»), i soccorsi umanitari che man mano scompaiono e i capi che fuggono, mentre si intensificano pesanti bombardamenti sui civili con aerei forniti dal Regno Unito e dall’Unione Sovietica. Risulta evidente, alla fine, che la soggezione imposta agli ibo è una manovra organizzata sin dall’inizio, con le stragi di civili inermi prima e, poi, lo strangolamento finale della strenua resistenza militare e civile del Biafra. I personaggi rimangono sconfitti dal crollo di un sogno comune e dalla rivelazione di essere vittime impotenti di un gioco più grande di loro in cui la Nigeria è una pedina nelle mani di burattinai internazionali. Ciò non toglie, comunque, che si addossi a varie figure ibo, yoruba, hausa, ecc, una responsabilità o corresponsabilità gravissima in quanto avviene. Alla fine, quando tacciono i frastuoni della guerra, varie voci dichiarano di esser state all’oscuro di quanto accadeva.Gli altri scrittoriLa storia del Biafra è già stata più volte esplorata da romanzieri nigeriani, fra i quali vanno ricordati Chinua Achebe, Buchi Emecheta, Chukwuemeka Ike, Flora Nwapa e Cyprian Ekwensi, ma anche Ken Saro-Wiwa nel bellissimo Sozaboy, e Wole Soyinka, che in Stagione di anomia ma anche ne L’uomo è morto ha offerto una visione allucinata e disperante di quell’universo in guerra: e però in tutti questi casi si trattava di individui che avevano direttamente vissuto quel periodo. Chimamanda Ngozi Adichie appartiene invece a una generazione successiva alla guerra, e ciò le consente di ritornare sul tema con elasticità immaginativa, cioè, di creare più liberamente dei personaggi che incarnino quella vicenda e i suoi vari aspetti politici ed esistenziali per riportarli sul palcoscenico dell’attenzione contemporanea. Infatti la questione che fu alla base della guerra civile di allora - gli interessi derivati dai ricchi giacimenti petroliferi della regione - appare tuttora irrisolta, anzi, incancrenita, e sta provocando quella che già si configura come una guerriglia nell’area del Delta del fiume Niger.Visto nella grande corrente del romanzo nigeriano, Metà di un sole giallo si colloca nel mainstream della tradizione di Achebe ma anche di Ekwensi, e rende onore alla statura del grande poeta ibo Christopher Okigbo, morto combattendo nell’esercito biafrano, e trasformato, nel romanzo, nel personaggio del poeta-soldato Okeoma. Il nuovo romanzo di Adichie si colloca in una lunga tradizione letteraria che non va sottovalutata, e testimonia un serio e intenso proposito di ricerca storica e culturale, creando una nuova via di ingresso alla lettura di una fase tragica della storia nigeriana ancora densa di interrogativi per le generazioni più giovani.

Itala Vivan

martes, 20 de enero de 2009

PRIMO DISCORSO UFFICIALE DEL PRESIDENTE DEGLI STATI UNITI BARACK OBAMA


Miei concittadini,
mi trovo qui oggi vestito dei panni dell’umilta’ al cospetto del compito che ci attende, grato per la fiducia che mi avete accordato, memore dei sacrifici sopportati da nostri antenati. Ringrazio il presidente Bush per il servizio reso alla nazione nonche’ per la collaborazione e la generosita’ dimostratemi durante tutto ilperiodo di transizione.
Quarantaquattro presidenti hanno prestato giuramento. Le parole del giuramento sono state pronunciate durante l’alta marea della prosperita’ e durante le acqua calme della pace. E non di meno, di tanto in tanto, il giuramento viene pronunciato sotto un cielo carico di nubi e gravido di tempesta. In questi moment l’America e’ riuscita ad andare avanti non semplicemente grazie alle capacita’ e alla visione di chi la governava, ma perche’ noi, il Popolo, siamo rimasti fedeli agli ideali dei nostri antenati e non abbiamotradito la carta costituzionale.
Cosi’ e’ stato. E cosi’ deve essere anche con questa generazione di americani.Tutti capiscono che siamo nel mezzo di una crisi. La nostra nazione e’ in guerra contro una diffusa rete diviolenza e di odio. La nostra economia e’ terribilmente indebolita a causa dell’avidita’ e dell’irresponsabilita’ di alcuni, ma anche della nostra collettiva incapacita’ di compiere scelte difficili e di preparare la nazione ad una nuova era. C’e’ chi ha perso la casa; c’e’ chi ha perso il lavoro; molte aziende hanno chiuso. La nostra assistenza sanitaria e’ troppo costosa; troppi sono i giovani che le nostre scuole non riescono a portare fino al compimento degli studi e ogni giorno che passa appare piu’ chiaro che il modo in cui usiamo l’energia rafforza i nostri nemici e mette in pericolo il pianeta.
Questi sono gli indicatori della crisi confermati dai dati e dalle statistiche. Meno misurabile, ma non meno drammatica e’ la perdita di fiducia che pervade il nostro Paese – una sorta di inquietante paura che il declino dell’America sia inevitabile e che la prossima generazione sia costretta a ridimensionare le sue aspettative.
Oggi vi dico che le sfide che dobbiamo affrontare sono reali. Sono serie e numerose. Superarle non sara’ facile e richiedera’ del tempo. Ma l’America deve sapere una cosa: riusciremo ad affrontarle con successo.
Ci troviamo qui oggi perche’ abbiamo scelto la speranza rispetto alla paura, l’unita’ di intenti rispetto ai conflitti e alla discordia.
Oggi intendiamo porre fine alle meschine lagnanze e alla false promesse, alle recriminazioni e alle verita’ troppo abusate che da troppo tempo strangolano la nostra politica.
Rimaniamo una nazione giovane, ma per dirla con le parole della Sacra Scrittura, e’ ora di abbandonare le cose infantili. E’ giunta l’ora di ribadire il nostro spirito indomito, di scegliere la parte migliore della nostra storia, di portare avanti quel dono prezioso, quella nobile idea trasmessa di generazione in generazione, la promessa fattaci da Dio che tutti sono uguali, tutti sono liberi e tutti meritano la possibilita’ di perseguire la propria personale felicita’.
Nel riaffermare la grandezza della nostra nazione, comprendiamo che la grandezza non si puo’ mai dare perscontata. Va guadagnata. Nel nostro viaggio non abbiamo mai preso le scorciatoie e non ci siamo mai accontentati di poco. Non e’ stato il cammino dei pusillanimi – di quanti preferiscono l’ozio al lavoro o cercano solo i piaceri della ricchezza e della fama. Sono stati coloro che amano rischiare, che amano fare le cose – persone celebri, ma spesso uomini e donne qualunque che svolgono un lavoro oscuro - che ci hanno consentito di percorrere il sentiero lungo e accidentato che porta alla prosperita’ e alla liberta’.
Per noi questi uomini hanno impacchettato i loro pochi averi terreni e hanno attraversato gli oceani alla ricerca di una vita nuova.
Per noi hanno lavorato duro subendo lo sfruttamento e hanno colonizzato il West, hanno sopportato la frusta e hanno dissodato i campi.
Per noi hanno combattuto e sono morti in posti come Concord e Gettysburg, la Normandia e Khe Sahn. Piu’ di una volta questi uomini e queste donne hanno lottato, si sono sacrificati e hanno lavorato fino a spaccarsi le mani per garantirci una vita migliore. Vedevano l’America come qualcosa di piu’ grande della somma delle nostre ambizioni individuali, piu’ grande di tutte le differenze di nascita o di ricchezza o di appartenenza.
E’ questo il viaggio che oggi continuiamo. Rimaniamo la nazione piu’ prospera e potente della terra. I nostri lavoratori non sono meno produttivi di quando e’ iniziata questa crisi. Le nostri menti non sono meno inventive, le nostre merci e i nostri servizi non meno richiesti della settimana scorsa o del mese scorso o dell’anno scorso. Le nostre capacita’ restano intatte. Ma e’ sicuramente tramontata l’epoca in cui potevamo compiacerci di noi stessi, potevamo proteggere interessi angusti e rinviare decisioni sgradevoli. Da oggi dobbiamo raccogliere le forze, rimboccarci le maniche e ricominciare l’opera di ricostruzione dell’America.
Dovunque guardiamo c’e’ qualcosa da fare. La situazione dell’economia impone interventi audaci e rapidi e oi interverremo – non solo per creare nuovi posti di lavoro, ma per gettare le basi di un nuovo periodo di crescita. Costruiremo le strade e i ponti, le reti elettriche e le linee digitali che alimentano i commerci e ci tengono uniti. Ridaremo alla scienza il posto che merita e sfrutteremo le meraviglie della tecnologia per migliorare la qualita’ dell’assistenza sanitaria e ridurne i costi. Sfrutteremo il sole e i venti e il suolo per alimentare le auto e le fabbriche. E trasformeremo le nostre scuole, i nostri college e le nostre universita’ affinche’ possano soddisfare i bisogni di una nuova era. Tutto questo possiamo fare. E tutto questo faremo.
C’e’ chi ritiene eccessive le nostre ambizioni – chi insinua che il nostro sistema non e’ in grado di tollerare programmi troppo grandi. Costoro hanno la memoria corta. Infatti hanno dimenticato quanto il nostroPaese ha gia’ fatto, quanto donne e uomini liberi possono realizzare quando all’immaginazione si uniscono uno scopo comune e l’esigenza di essere coraggiosi.
I cinici non riescono a capire che la terra e’ franata sotto i loro piedi – che gli argomenti politici stantii che ci logorano da tempo non valgono piu’. Oggi non ci chiediamo se c’e’ troppo Stato o troppo poco Stato, ma ci chiediamo se la macchina dello Stato funziona – se aiuta le famiglie a trovare un lavoro retribuito in maniera dignitosa, a curarsi sopportando costi contenuti, ad avere una pensione dignitosa. Ogni qual volta la risposta e’ affermativa, abbiamo intenzione di continuare sulla stessa strada. Quando invece la risposta e’ egativa e’ nostra intenzione porre fine ai programmi pubblici che non funzionano. E quelli di noi che gestiscono il denaro pubblico debbono rispondere del loro operato – debbono spendere con saggezza, rivedere le cattive abitudini e operare alla luce del giorno – perche’ solo cosi’ facendo possiamo ripristinare il rapporto di fiducia tra il popolo e il governo.
Non ci chiediamo nemmeno se il mercato e’ una forza del bene o del male. La sua capacita’ di generare ricchezza e di allargare i confini della liberta’ e’ impareggiabile, ma questa crisi ci ha ricordato che senza un occhio attento il mercato puo’ sfuggire al nostro controllo – e che una nazione non puo’ prosperare a lungo quando favorisce esclusivamente i ricchi. Il successo della nostra economia e’ sempre dipeso non solo dall’ammontare del nostro PIL, ma dalla diffusione della prosperita’, dalla nostra capacita’ di garantire opportunita’ a tutti gli uomini di buona volonta’ – non per ragioni caritatevoli, ma perche’ e’ la strada piu’ sicura per realizzare il bene comune.
Anche per quanto riguarda la difesa comune, respingiamo la falsa scelta tra la nostra sicurezza e i nostriideali. I nostri Padri Fondatori al cospetto di pericoli che non riusciamo nemmeno ad immaginare, concepirono una carta costituzionale per garantire lo stato di diritto e i diritti dell’uomo, una carta tramandata con il sangue di generazioni di americani. Questi ideali illuminano ancora il mondo e non li abbandoneremo per ragioni di convenienza. A tutti gli altri popoli e governi che ci guardano oggi, dalle capitali piu’ grandi al piccola villaggio nel quale vide la luce mio padre, dico: sappiate che l’America e’ amica di tutte le nazioni e di tutti gli uomini, donne e bambini che aspirano ad un futuro di pace e dignita’ e che siamo nuovamente pronti a metterci alla testa del mondo.
Non dimenticate che le generazioni che ci hanno preceduto sconfissero il fascismo e il comunismo non solo con i missili e i carri armati, ma con salde alleanze e convinzioni profonde. Compresero che la nostra sola potenza non ci puo’ proteggere ne’ ci puo’ consentire di fare cio’ che vogliamo. Sapevano invece che la nostra potenza aumenta facendone un uso prudente, che la nostra sicurezza deriva dalla giustezza della nostra causa, dalla forza dell’esempio, dalle qualita’ sobrie dell’umilta’ e della moderazione.
Siamo i custodi di questa eredita’. Guidati ancora una volta da questi principi possiamo far fronte alle nuoveminacce che chiedono uno sforzo ancora maggiore - e chiedono altresi’ una maggiore cooperazione e una maggiore comprensione tra le nazioni. Cominceremo responsabilmente con il lasciare l’Iraq alla sua gente e con il costruire una pace duramente guadagnata in Afghanistan. Con i nostri vecchi amici ed ex nemici, lavoreremo instancabilmente per ridurre la minaccia nucleare e per fugare lo spettro di un pianeta sempre piu’ caldo. Non chiederemo scusa per il nostro stile di vita ne’ vacilleremo quando dovremo difenderlo e a quanti tentano di realizzare i loro obiettivi spargendo il terrore e massacrando degli innocenti, diciamo che il nostro spirito e’ piu’ forte e che non lo si puo’ spezzare, che non potranno piegarci e che saremo noi a sconfiggerli.
Sappiamo infatti che la nostra composita eredita’ e’ una forza, non una debolezza. Siamo una nazione di cristiani e musulmani, ebrei e indù – e di non credenti. Si mescolano nel nostro Paese lingue e culture di ogni parte della terra e, dal momento che abbiamo assaggiato l’amara brodaglia della guerra civile e della segregazione e siamo emersi da quel buio capitolo della nostra storia piu’ forti e piu’ uniti, non possiamo non credere che i vecchi odii un giorno svaniranno, che i confini della tribu’ presto si dissolveranno, che nella misura in cui il mondo diventera’ sempre piu’ piccolo, si rivelera’ la nostra comune umanita’ e che l’America deve svolgere il suo ruolo nell’aprire la strada ad una nuova era di pace.
Al mondo musulmano dico che cerchiamo una nuova via di uscita basata sugli interessi reciproci e sul reciproco rispetto. Ai leader del mondo che cercano di alimentare i conflitti o di addossare all’Occidente le responsabilita’ dei mali delle loro societa’, dico che i loro popoli li giudicheranno per cio’ che faranno, non per cio’ che distruggeranno. A quanti rimangono aggrappati al potere con la corruzione, la menzogna e soffocando il dissenso, dico che stanno dalla parte sbagliata della storia, ma che tenderemo loro la mano se si dimostreranno disposti ad un segno di pace.
Alla gente delle nazioni povere diciamo che ci impegniamo a lavorare con loro affinche’ le loro fattorie prosperino, l’acqua potabile non manchi e possano nutrire i loro corpi smunti e le loro menti affamate. E a quelle nazioni che, come la nostra, conoscono una relativa abbondanza diciamo che non possiamo piu’ permetterci un atteggiamento di indifferenza nei confronti delle sofferenze al di fuori dei nostri confini e che non possiamo sfruttare le risorse del mondo senza curarci delle conseguenze perche’ il mondo e’ cambiato e dobbiamo cambiare anche noi.
Nel riflettere sul cammino che ci attende, ricordiamo con umile gratitudine i coraggiosi americani che, in questo preciso momento, pattugliano lontani deserti e remote montagne. Oggi hanno qualcosa da dirci proprio come gli eroi caduti che riposano ad Arlington e sussurrano nel tempo. Li onoriamo non solo perche’ sono guardiani della nostra liberta’, ma perche’ riflettono lo spirito di servizio, la volonta’ di trovare un senso in qualcosa piu’ grande di loro. E non di meno in questo momento – un momento che definira’
una generazione – e’ proprio questo spirito che vive in noi tutti.
Per quanto il governo possa e debba fare, in ultima analisi la nazione poggia sulla fede e la determinazione degli americani. Sono la gentilezza con cui si accoglie in casa un estraneo in un momento difficile e la generosita’ dei lavoratori che accettano una riduzione dell’orario di lavoro per non far perdere il posto ad un amico che ci guidano nei momenti piu’ bui. Sono il coraggio di un pompiere che si precipita su per una rampa di scale piena di fumo, ma anche il desiderio di un genitore di crescere il figlio che alla fine decidono il nostro destino.
Le nostre sfide forse sono nuove. Potrebbero essere nuovi anche gli strumenti per affrontarle. Ma i valori dai quali dipende il successo – duro lavoro e onesta’, coraggio e correttezza, tolleranza e curiosita’, lealta’ e patriottismo – sono cose vecchie. Sono cose vere. Sono stati la forza tranquilla del progresso durante tutta la nostra storia. Chiediamo quindi il ritorno a queste verita’. A noi si chiede una nuova era di responsabilita’ – il riconoscimento, da parte di tutti gli americani, che abbiamo doveri nei confronti di noi stessi, della nostra nazione e del mondo, doveri che non accettiamo mugugnando, ma che accettiamo con gioia, consapevoli che non v’e’ nulla di piu’ soddisfacente per lo spirito, nulla che meglio definisce il nostro carattere dell’impegnarci anima e corpo in un compito difficile.
Questi sono il prezzo e la promessa del nostro essere cittadini. Questa e’ l’origine della nostra fiducia – sapere che Dio ci chiama a dare forma ad un destino incerto.
Questo e’ il significato della nostra liberta’ e del nostro credo – che uomini, donne e bambini di ogni razza e fede possano celebrare insieme in questo magnifico spazio e che un uomo il cui padre meno di 60 anni fa poteva non essere servito in un ristorante ora e’ dinanzi a voi dopo aver pronunciato un sacro giuramento.
Contrassegniamo questo giorno con il ricordo di chi siamo e di quanto a lungo abbiamo viaggiato. Nell’anno della nascita dell’America, in un giorno freddissimo, un piccolo manipolo di patrioti si riuni’ accanto al fuoco morente degli accampamenti nei pressi di un fiume gelato. La capitale era abbandonata. Il nemico avanzava. La neve era macchiata di sangue. Nel momento in cui l’esito della rivoluzione era quanto mai in dubbio, il padre della nostra nazione ordino’ che alla gente fossero lette queste parole: "Che in futuro il mondo sappia…che nel cuore dell’inverno quando potevano sopravvivere solamente la speranza e la virtu’….citta’ e campagna allarmate dal comune pericolo unirono le forze per affrontarlo".
America. Al cospetto dei comuni pericoli, nell’inverno delle nostre sofferenze, ricordiamo queste immortali parole. Con la speranza e la virtu’, superiamo con coraggio una volta ancora le correnti ghiacciate e resistiamo alle possibile tempeste. Che i figli dei nostri figli possano dire che quando siamo stati messi alla prova non abbiamo consentito che il nostro viaggio fosse interrotto, che non abbiamo voltato le spalle, che non abbiamo esitato e, con lo sguardo fisso all’orizzonte e con la grazia di Dio su di noi, abbiamo portato avanti il grande dono della liberta’ e lo abbiamo consegnato alle generazioni future.

(Traduzione a cura di Carlo Antonio Biscotto)

Sono i musei le vere piazze d'America


ALAIN ELKANN E ANGELO CRESPI
Per superare la crisi gli americani adesso sperano in Obama e in un investimento pubblico di 700 miliardi di dollari. Il neo presidente ha però detto che uno dei punti di forza del suo mandato sarà il rilancio della cultura. Per questo l’America, che non ha siti archeologici, borghi medievali o rinascimentali e neppure piazze, punta sui musei. Così a Boston, a Dallas, a Fort Worth, a San Diego e Washington sorgono moderni distretti museali, con spazi espositivi, cinema e teatri e giardini e bar e ristoranti, dove la gente s’aggira e fortifica quell’identità di nazione che in realtà già possiede. Dentro i musei capisci perché l’America è in verità l’Europa ordinata e acculturata che abbiamo sempre desiderato noi europei senza poterla avere. Dentro i musei comprendi anche l’amore sincero che l’America prova per l’Europa, condito da un atavico senso di inferiorità che è stato colmato negli anni acquistando - come si fa coi blasoni per retrodatare la propria nobiltà - nostre opere d’arte in quantità esorbitante. Industriali e finanzieri, ricchi tycoon del petrolio o dell’agricoltura fin nel più sperduto paese, hanno messo insieme collezioni uniche di Tiziano, Rembrandt, Canaletto, Matisse, Picasso, Modigliani, Mirò elargendole poi a fondazioni e trust che ora le espongono al pubblico. In ogni museo i benefattori sono a centinaia e le sale portano la firma della famiglia donante, come succede in Italia nelle chiese dove le panche recano il nome di chi le ha regalate ex voto. È la borghesia ricca, più che il capitale ad aver fatto grande l’America. Una borghesia che sfrutta gli sgravi fiscali disponibili per gli investimenti in cultura, ma che possiede comunque un forte senso di responsabilità comunitaria, di fatto la consapevolezza del proprio ruolo. Per questo non sorprende in America, visitare la Rachofsky House a Dallas, un edificio disegnato da Richard Meier, e ad attenderti sulla porta c’è proprio Mr. Rachofsky in persona, sessantenne ben tenuto e ben vestito, che ti fa visitare la sua casa museo dentro la quale espone la sua collezione di arte italiana con pezzi di Cattelan, Boetti, Merz, Fontana, Manzoni, Paolini, quasi che abitasse in Brianza. Nelle città americane non ci sono piazze: disegnate incrociando le strade in linea retta come succedeva nell’accampamento romano, non prevedono alcun foro. A San Diego, ad Atlanta, a Dallas, nonostante milioni di abitanti non c’è nessuno in giro a piedi. Se vuoi incontrare qualcuno devi andare in un Mall, oppure al museo. A Dallas migliaia di persone affollano il Nasher Sculpture Center, famiglie e bambini nei giardini tra le opere giganti di Richard Serra e Jonathan Borofsky; a San Diego tutti passeggiano al Balboa Park un distretto con 21 musei; al Metropolitan di New York l’ultimo giorno dell’anno, la ressa è simile a quella di Time Square dove i più coraggiosi hanno aspettato nel freddo glaciale il countdown di mezzanotte fin dalle tre di pomeriggio. I musei americani sono accoglienti. Anche i direttori sono giovani, poco burocratizzati, quasi sempre storici dell’arte con una formazione manageriale. Al Metropolitan di New York, uno dei musei più importanti del mondo, il nuovo direttore Thomas Campbell ha 46 anni. A Los Angeles al County Museum, il nuovo direttore Michael Goven ha 43 anni, mentre al Getty Michael Brand ne ha cinquanta e me dimostra dieci in meno. Katherine Getchell, la giovane direttrice a Boston, ad un certo punto, mancando un addetto, si infila il grembiulino delle guide e si mette alla porta ad accogliere i visitatori. A Reno Nevada, il direttore dell’Art Museum David B. Walker ha poco più di 30 anni e i capelli lunghi. Mentre a Dallas la curatrice per la pittura europea, Heather Macdonald, sembra una ragazzina quanto un ragazzino il suo equivalente al Getty per la pittura italiana, Peter Bjorn Kerber. C’è energia in questo mondo dei musei, malgrado la crisi che fa accatastare invendute le automobili nei parcheggi delle concessionarie ai bordi delle freeway l’America investe in cultura. Al County Museum di Los Angeles, il direttore Govan mostra con orgoglio l’ampliamento in corso. Al Kimbell Museum di Fort Worth, uno dei musei più raffinati degli States, il direttore Malcolm Warner ci mostra soddisfatto il modellino della sede che dovrà essere eretta a breve. Entrambi i progetti sono di Renzo Piano, come di Piano è la nuova ala dello High Museum di Atlanta. Dovunque ti giri c’è un edificio costruito dall’architetto genovese che è una sorta di riconosciuto autorevole ambasciatore della cultura italiana. A contendergli il primato, Richard Meier di cui si può visitare l’abbacinante Getty. Il reparto restauri è condotto come un centro bio medico, mentre l’archivio fotografico, con oltre 250mila stampe, è refrigerato al pari di una fabbrica di nano tecnologie, tutto a prova di terremoto: qui si apprende il senso reale del termine «conservazione». L’America che a noi spaventa, quella dell’imperialismo, dell’egemonia culturale di Hollywood, fa la fila davanti a un Guercino o a un Guido Reni. I curatori ti mostrano con riverenza le sale degli italiani, i Raffaello, i Tiziano, i Canaletto, i Tiepolo, i Bellini, i Mantegna e poi i tanti minori che da noi magari giacciono impolverati nei sotterranei. Benché il mercato non tiri fanno comunque acquisti: al County Museum di LA hanno appena comperato tramite un nostro mercante d’arte una Madonna con bambino di Cima da Conegliano, così al Getty un prezioso Guido Cagnacci. Anche alla National Gallery di Washington, l’unica istituzione museale finanziata direttamente dallo Stato, il curatore David Alan Brown ci fa visitare con entusiasmo una mostra dedicata a Pompei che è allestita in parte con pezzi provenienti dagli scantinati dei nostri musei, pezzi mai visti in Italia ripuliti e valorizzati come noi, appesantiti oltremodo dal nostro patrimonio, non riusciamo più a fare. Quando entri in un museo americano e sanno che sei italiano ti trattano con rispetto. È il riflesso della grandezza della nostra arte di un tempo. I direttori e i curatori delle collezioni, nonostante i lunghi rapporti con le nostre Sovrintendenze, sono molto attenti al lavoro della Fiac, una fondazione americana con sede a New York, voluta e creata dal Ministero dei Beni Culturali, che da anni è impegnata nella diffusione della cultura e dell’arte italiana negli Stati Uniti e che ha già organizzato mostre di capolavori assoluti quali la Fornarina di Raffaello e l’Antea di Parmigianino alla Frick Collection di New York, o nei musei di Houston e Indianapolis, oppure di due capolavori di Antonello da Messina al Metropolitan, o i disegni di Leonardo da Vinci prestati dalla Libreria Reale di Torino ai musei di Burmingham Alabama e San Francisco… Tra sogni dei musei americani ritorna più frequente il desiderio di avere in prestito quattro o cinque Caravaggio, qualche Raffaello, magari alcuni Tiziano, oppure opere dei futuristi, di Fontana o di Merz. Alla National Gallery di Washington sarebbero entusiasti di poter festeggiare il nuovo presidente degli Stati Uniti Obama con una mostra dedicata ai Bronzi di Riace. Chissà se si potrà.

viernes, 16 de enero de 2009

Così la politica perseguitò Einstein e la relatività

Ecco come le esigenze della politica si attorcigliarono su uno dei più grandi scienziati di tutti i tempi, Einstein. Ce ne parla David Kaiser, del quale anticipiamo stralci della «lezione» che terrà al Festival della Scienza.Abbiamo la tendenza a pensare che Albert Einstein fosse un solitario, un uomo che evitava il trambusto della vita di tutti i giorni preferendo la tranquilla contemplazione. A dispetto di questa immagine familiare ai più, Einstein si è occupato molto di politica durante tutto il corso della sua vita. Socialista e pacifista convinto, si è impegnato instancabilmente nel campo dei diritti civili, per il controllo civile dell’energia atomica e per correggere gli eccessi dell’anticomunismo. Di fatto fu attivo politicamente al punto che l’Fbi lo tenne sotto stretta sorveglianza per decenni redigendo un rapporto segreto di 2.000 pagine sulle sue attività politiche. Anche il più importante e duraturo contributo scientifico di Einstein - la teoria generale della relatività, vale a dire il modo in cui i fisici spiegano la gravità e il fondamento di quasi tutte le nostre teorie sul cosmo - è stato considerato alla stregua di un grande, austero tempio estraneo ai drammi politici fin troppo umani della storia moderna. Ma era davvero così? Come il suo autore, anche la teoria di Einstein era profondamente inscritta negli avvenimenti politici.Einstein dedicò dieci anni di lavoro alla teoria prima di scoprire le equazioni che mettono la curvatura dello spazio e del tempo in relazione con la distribuzione della materia e dell’energia. Secondo la nuova concezione di Einstein, la gravità altro non era che geometria; con buona pace per Newton, Einstein dichiarò che non esisteva alcuna «forza» di gravità, ma esisteva solo la deformazione elastica dello spazio-tempo.La forma definitiva delle sue equazioni venne alla luce in una serie di pubblicazioni ravvicinate nel novembre del 1915 in piena prima guerra mondiale. La guerra esercitò un profondo effetto sul modo in cui gli scienziati vennero a conoscenza del lavoro di Einstein. Uno dei primi adepti fu il matematico russo Vsevolod Frederiks, che allo scoppio della guerra studiava a Gottinga. Poco dopo aver seguito una conferenza di Einstein sul suo nuovo lavoro, il matematico russo fu internato come prigioniero civile di guerra. Alla fine della guerra fu rilasciato ed estradato nella natia San Pietroburgo. Frederiks fu il primo scienziato russo a tenere corsi sulla teoria di Einstein e contribuì a formare una intera generazione di esperti in gravitazione. (...)La guerra condizionò anche la diffusione della teoria di Einstein in Occidente. Alcuni degli amici più intimi e degli ex studenti di Einstein lavoravano a Leiden. Anche dopo lo scoppio della guerra Einsten affrontò diverse volte il lungo viaggio per arrivare a Leiden al solo scopo di discutere del suo lavoro - viaggi resi possibili dal fatto che l’Olanda era ancora un Paese neutrale.Ma la guerra aveva troncato tutti i contatti diretti tra gli scienziati in Gran Bretagna e in Germania. Gli scienziati britannici, come ad esempio Arthur Eddington, vennero a conoscenza del lavoro di Einstein solo tramite i colleghi di Einstein a Leiden. Uno di loro, Willem de Sitter, inviò a Eddington una copia delle carte di Einstein (c’era l’embargo sui giornali) e scrisse per Eddington e i suoi colleghi alcuni lunghissimi manuali in inglese. Il corso di fisica della relatività a distanza funzionò e con il tempo e un certo impegno Eddington divenne il più profondo conoscitore in Gran Bretagna della teoria della relatività.GUERRA E SCIENZAAnche in questo circostanza la guerra svolse un ruolo nella diffusione della teoria accelerandone invece che rallentandone la diffusione. Eddington, che era un quacchero, durante la guerra fu un tenace obiettore di coscienza. I suoi superiori insistettero sul governo affinché gli fosse permesso di dedicare il servizio civile obbligatorio alla preparazione di una spedizione per studiare una eclissi (...). I posti migliori per osservare la nuova eclissi erano lontani dai campi di battaglia europei e quindi Eddington riuscì ad evitare il destino che era toccato in sorte a Freundlich. Una equipe (guidata da Eddington) arrivò nella minuscola isola di Principe, al largo della costa occidentale dell’Africa, mentre l’altra osservò l’eclissi dal Brasile. Quasi esattamente un anno dopo l’armistizio che aveva messo fine alla prima guerra mondiale, Eddington annunciò dinanzi ad un folto pubblico riunito a Londra che le osservazioni sulla eclissi suffragavano la previsione di Einstein: la gravità aveva curvato la traiettoria della luce stellare.Nel giro di 24 ore Einstein divenne una star internazionale. Il tripudio fu ancora più sensazionale in quanto una equipe scientifica britannica aveva verificato la teoria di uno scienziato tedesco in un momento in cui gli scienziati dei due Paesi non potevano ancora incontrarsi di persona alle conferenze internazionali. Einstein colse lo strano intreccio tra scienza e politica quando spiego ad un giornalista del Times di Londra: «In Germania oggi mi considerano uno “scienziato tedesco” e in Inghilterra un “ebreo svizzero”. Se domani dovessi diventare una bete noire (bestia nera, ndt) la realtà si rovescerebbe e diventerei un “ebreo svizzero” per i tedeschi e uno “scienziato tedesco” per gli inglesi».ARRIVANO I NAZISTILa sfortunata situazione si verificò prima di quanto Einstein avesse immaginato. A partire dal 1920, i primi sostenitori del nazismo cominciarono ad organizzare in tutta la Germania imponenti manifestazioni anti-Einstein. A guidare questo movimento c’erano due Nobel tedeschi per la fisica che attaccarono il lavoro di Einstein giudicandolo anti-ariano nello spirito. Tutti i veri ariani - sostenevano - si erano resi conto della «forza» presente nelle loro ossa lavorando la terra. Nessuno sarebbe stato così rammollito da eliminare il concetto di forza come aveva fatto Einstein. I due scienziati attaccarono Einstein su due fronti: condannarono il lavoro di Einstein per il fatto di essere ripugnante per la sensibilità ariana e, al tempo stesso, perché il più famoso risultato di Einstein - la curvatura della traiettoria della luce stellare ad opera di un corpo di notevole massa come il sole - era stato rubato ad un vero ricercatore ariano ed era in sostanza frutto di un plagio.(...)Nel 1933, subito dopo la loro ascesa al potere, i nazisti proibirono l’insegnamento della fisica di Einstein in tutto il Reich. L’interesse nei confronti della teoria di Einstein scemò in tutto il mondo, persino in luoghi molti lontani dall’influenza nazista. Intorno alla metà degli anni ’30 la maggior parte degli scienziati convennero sul fatto che alla maggior parte delle domande «semplici» era stata data risposta e che qualunque altra domanda si sarebbe rivela troppo difficile per avere risposta o troppo remota dal resto della fisica per meritare un approfondimento. Appena un decennio dopo che Einstein era stato accolto con grandi onori e che le pubblicazioni sulla sua teoria erano apparse a centinaia ogni anno, l’interesse crollò ai livelli precedenti la spedizione per l’osservazione dell’eclissi.Dopo aver vivacchiato ai margini del mondo scientifico per una ventina d’anni, la teoria ricominciò a suscitare un modesto interesse da parte di pochi negli anni 50. A quell’epoca una seconda guerra mondiale aveva modificato la situazione della ricerca nel campo della fisica stabilendo nuovi rapporti tra i fisici e i vari finanziatori. Negli Stati Uniti un eccentrico milionario di nome Roger Babson creò una nuova fondazione per contribuire al progresso della ricerca sulla gravità. (...)La seconda guerra mondiale consentì diversi altri sviluppi nello studio della teoria di Einstein. (...) Anche gli armamenti fecero la loro parte. Gli scienziati riciclarono idee e tecniche che facevano parte dei progetti della nuova bomba all’idrogeno degli anni 50 - armi nucleari molte volte più devastanti delle bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki alla fine della seconda guerra mondiale - per far compiere progressi all’astrofisica relativistica. (...)In tutti questi modi la stupenda teoria di Einstein conobbe alti e bassi seguendo le maree della poltica. Nata in tempo di guerra, la teoria della relatività generale continuò ad essere influenzata da questioni di rilevanza mondiale: prima dai suoi detrattori nazisti e in seguito da una nuova generazione di ricercatori che operavano nel clima della guerra fredda.
di David Kaiser
http://web.mit.edu/dikaiser/www/Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

jueves, 15 de enero de 2009

WiTricity: l'elettricità senza fili

In arrivo una nuova generazione di dispositivi in grado di ricaricarsi senza bisogno di attaccarsi alla rete
Uno dei primi esperimenti di trasmissione elettrica senza fili Al prossimo CES (Consumer Electronics Show) di Las Vegas, la più grande fiera dell'elettronica che si terrà dall' 8 all' 11 gennaio, la start-up californiana PowerBeam mostrerà al mondo un innovativo sistema in grado di trasformare l'elettricità in un laser invisibile che trasmette il calore a una cella fotovoltaica che lo riconverte poi in elettricità, utile per ricaricare piccoli dispositivi in modalità wireless.
ADDIO CAVI E CARICABATTERIE - A quanto pare, dunque, è infine arrivato il momento dell'energia senza fili - la cosiddetta WiTricity (wireless electricity), già oggetto di una ricerca dello scorso anno firmata Mit - che permette di alimentare le apparecchiature senza la necessità di connetterle fisicamente alla rete elettrica. Tra i prodotti commerciali dotati della nuova tecnologia che saranno presentati a Las Vegas vi sono cornici digitali e casse acustiche. «Faremo scomparire dal dizionario il verbo ricaricare», ha detto David Graham, co-fondatore of PowerBeam, sottolineando il fatto che grazie all'elettricità senza fili qualsiasi dispositivo si trovi in un ambiente dotato di WiTricity succhierà dall'aria l'energia che gli è necessaria senza che l'utilizzatore debba fare alcunché. Così per esempio, entrando in una stanza con rete elettrica senza fili, la batteria semiscarica di un cellulare o di un iPod si ricaricherà automaticamente anche restando nella tasca o nella borsa del proprietario, che non avrà più bisogno degli antipatici e sempre incompatibili caricabatteria.
FUTURO TOTAL WIRELESS - Secondo gli esperti, la WiTricity farà per l'elettronica di consumo ciò che il wi-fi ha fatto per l'internet, liberandoci ulteriormente dalla schiavitù dei cavi e agevolando non poco quanti hanno la necessità di lavorare anche in mobilità, come in aeroporti o altri luoghi pubblici. Grazie agli hotspot dell'elettricità non sarà più necessario attaccare alcuna spina. Attualmente il laser messo a punto dall'azienda californiana è in grado di generare circa 1,5 watt di potenza comunicando con una cella solare a 10 metri di distanza. Una quantità di energia, questa, che basterebbe ad alimentare degli altoparlanti o delle lampade a Led: un laptop avrebbe invece bisogno di 30-50 watt, e secondo Graham la tecnologia può facilmente essere implementata affinché anche questo diventi possibile. Infine, rispondendo a quanti si domandando se il laser di PowerBeam non possa costituire un pericolo per la salute dell'uomo, l'azienda ha spiegato che la tecnologia è assolutamente innocua, in quanto il laser provvede solamente a spostare il calore da un luogo ad un altro.
Alessandra Carboni0 5 gennaio 2009

miércoles, 14 de enero de 2009

Uomini in cerca delle radici

FRANCESCO POLI
PARIGI

Attraverso la messa in scena di uno stimolante confronto, allo stesso tempo contraddittorio e complementare, fra i differenti punti di vista del fotografo e filmmaker Raymond Depardon e dell’urbanista e filosofo Paul Virilio, la mostra «Terre natale» propone una riflessione generale sullo stato attuale dell’umanità a partire dalle nozioni cruciali di radicamento e sradicamento. Il progetto è incentrato sull’opposizione estrema fra l’identità delle popolazioni «immobili», che da sempre hanno vissuto nella loro terra, e quelle coinvolte nell’iperdinamico processo della società globale. I due autori si sono posti inizialmente la seguente domanda: «Che cosa è rimasto di questo mondo, della nostra terra natia, della storia di ciò che fino a ora è il solo pianeta abitabile?». Depardon ha realizzato due bellissimi documentari cercando da un lato di cogliere, attraverso una serie di interviste a persone di comunità marginali e residuali in Brasile, Bolivia, Etiopia, il senso profondo del rapporto primario fra esistenza e territorio, e dall’altro lato, al contrario, di registrare, durante un viaggio di quattordici giorni intorno al mondo la dimensione fluida e per molti versi anonima del movimento frenetico delle persone nelle grandi città. Nel primo film proiettato su uno schermo monumentale uomini e donne Chipaya, Quechua, Yanomami, Guarani, Kawesqar e Afar, ci parlano con toni appassionati e nostalgici della loro terra, della loro vita, delle loro tradizioni, ma anche della loro povertà e dell’angoscia per i loro figli senza futuro. Il suono di lingue sconosciute e le espressioni dei volti ci trasmettono un senso di straniante lontananza spaziale e temporale. Alla melanconica staticità della realtà dei dimenticati da tutti, fa da contrappunto la visione del reportage impressionistico, senza parole e suoni, costruito con rapide sequenze di gente che cammina (come scorre il traffico) nelle strade in grandi città, da Washington a Los Angeles, da Tokyo, a Ho Chi Minh City, da Singapore a Città del Capo: facce diverse ma abbigliamenti e comportamenti sempre più simili in apparenza.Nella seconda parte del percorso espositivo si passa da un taglio antropologico a uno sociologico, con la regia di Virilio e il sofisiticato allestimento multimediale degli architetti Diller Scofidio e Renfro. Virilio, che da trent’anni studia la trasformazione delle esperienze di tempo e spazio nelle società contemporantee determinate dalla progressiva velocizzazione dei mezzi di comunicazione e di informazione, accoglie in prima persona i visitatori, attraverso un filmato per spiegare il senso del suo intervento, proponendo una definizione decisamente spiazzante dei concetti attuali di sedentarietà e di nomadismo: «La natura della sedentarietà e del nomadismo sono radicalmente cambiati. Il tipo sedentario è quello che, con il suo cellulare e il suo computer portatile, si sente a casa sua dovunque, in un’ascensore, in un aereo o su un treno ad alta velocità. Questo significa essere sedentari, mentre un nomade è una persona che non si sente a casa propria in nessun posto». In altri termini, il vero sedentario, in questo senso, è ormai quell’individuo che ha interiorizzato senza più problemi la cultura del movimento e la dimensione dei «non luoghi», mentre persino lo stanziale, attaccato alla sua città e al suo territorio, sentendosi minacciato dai flussi migratori e da tutto ciò che viene dall’esterno (percepito come «diverso» che incombe) si sente nomade, e ha paura di di perdere le sicurezze del proprio tradizionale radicamento. Queste idee prendono forma i due sale. Nella prima, un’installazione visiva costituita da un centinaio di schermi televisivi sospesi in alto (che funzionano come finestre sul contesto globale) si vedono frammenti di notizie e immagini di esodi e spostamenti collettivi. La seconda sala è animata da una serie di spettacolari grafici elettronici che mostrano i processi di concentrazione umana nelle megalopoli; la circolazione delle rimesse degli emigranti da un paese all'altro; i percorsi degli emigranti per ragioni politiche e di guerra e quelli di chi va a cercare lavoro altrove; e infine la crescita dei disastri naturali e

Anteprima, Giorgio Montefoschi esplora Roma e la sua borghesia nel boom economico

Le due ragazze con gli occhi verdi» è un romanzo coraggiosamente controcorrente. Giorgio Montefoschi viene infatti recuperando, nel corso d'una vicenda in continuo crescendo emotivo, i valori fondanti della famiglia e della coppia. Primo, fra tutti questi, la fedeltà che il lettore vedrà mettere alla prova dagli imprevisti del destino, dai capricci della vita. Protagonista, lungo tutto l'arco della vicenda, è Pietro Angeli.
Intorno a lui si muove una famiglia dell'agiata borghesia romana, residente in un elegante villino del quartiere Parioli. Quando ci viene incontro, nel lontano 1956, Pietro è un acerbo adolescente in vacanza a Nettuno. La mamma, il papà e l'amatissimo nonno Cesare sono tutto (o quasi) il suo orizzonte. Montefoschi scrive queste pagine come una sorta di prologo, destinato a illuminare un insieme famigliare, i suoi componenti. I fatti, che animeranno l'intreccio, iniziano esattamente dieci anni dopo. Nell'ottobre 1966 s'incrinano infatti, in conseguenza di un'avventura galante del capofamiglia, i rapporti fra i coniugi Angeli. Fatto ancora più importante, ai fini del racconto, il loro figlio Pietro inizia una «storia» con Laura Barbi, una splendida ragazza dagli occhi verdi. Figlia d'un noto professionista, forse un po' viziata, si lascia baciare affidandosi al comportamento eccitante, sostanzialmente insondabile di chi vuole, disvuole e insomma non sa decidersi.
In ogni caso, innamorato cotto, Pietro farà di Laura la ragione stessa della sua esistenza. Non tradirà mai, neppure per un attimo, una passione nata in lui con l'esuberante generosità della prima giovinezza. Laura a un certo punto lo respingerà, forse per capriccio, dicendogli senza troppi complimenti (a pagina 135) «non sono più innamorata di te». Passeranno circa vent'anni, frattanto lei si sposerà e metterà al mondo due figli. Nel 1988, quando inizia il terzo dei quattro blocchi temporali che scandiscono la narrazione, il caso fa rincontrare Pietro e Laura. Stavolta faranno sesso adulto, spogliandosi con la febbre nelle mani. Però... Laura, personaggio molto ben disegnato da Montefoschi, viene assumendo rilievo sentimentale e originalità in un logorante, a momenti crudele negarsi e poi concedersi e poi ancora negarsi mentre Pietro spasima. Sono queste centrali le pagine forse più forti d'un romanzo che non ha paura della parola «amore», usandola senza censure o timidezze intellettualistiche. Senza voler compiacere cioè quelle mode che sembrano prediligere i sentimenti estremi, disordinati, conseguenti a un nichilismo di maniera. Intanto gli anni, trascorrendo veloci, compiranno puntuali la loro opera distruttiva e costruttiva a un tempo.
Ci saranno funerali, matrimoni e battesimi. «Una brutta malattia», come lei la definirà durante uno degli ultimi incontri con Pietro, stroncherà Laura. Spetterà dunque a sua figlia Maria (dagli occhi belli come quelli della mamma?) far battere per l'ultima volta, quasi alle soglie dell'anno 2000, il cuore ormai stanco del protagonista... Montefoschi, come il suo amato Moravia, in Le due ragazze con gli occhi verdi (Rizzoli) scrive di Roma e della borghesia. Molte cose, però, sono cambiate. Basti dire che i vent'anni dell'autore degli Indifferenti coincisero con l'incombere della dittatura fascista, quelli di Montefoschi sono coincisi con l'era democristiana. Nella casa, dove Pietro Angeli trascorre la giovinezza, il lettore ritroverà (e non è certo motivo di poco interesse) umori, sentimenti, atmosfere che risentono, sia pure in modo indiretto, della temperatura morale riscontrabile nell'Italia del miracolo economico.
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Sono proprio quegli anni, l'atmosfera che si respirava all'epoca nelle case dei quartieri alti, a spiegare come e perché i personaggi di questo romanzo vivano noncuranti della politica, lontani dalle problematiche civili. Pietro Angeli, in particolare, è un «uomo senza qualità » che cerca nell'amor passione e nel sentimento il senso della vita senza però avere l'impressione di trovarlo. Quella che si lascia dietro è alla fine una dolce, coinvolgente nostalgia della famiglia quale porto di duraturi e sereni affetti.

Antonio De Benedetti14 gennaio 2009