jueves, 7 de octubre de 2010

Il Nobel per la Letteratura assegnato a Mario Vargas LLosa

Lo scrittore peruviano - autore di capolavori come "La zia Julia e lo scribacchino" e "Il caporale Lituma sulle Ande" - e' stato premiato dall'Acccademia di Svezia "per la sua cartografia delle strutture del potere e per le acute immagini della resistenza, rivolta e sconfitta
dell'individuo".

Famoso per i suoi numerosi libri, inizia la sua carriera con "La ciudad y los perros" (1963, La città e i cani), ambientato in un collegio militare della capitale Lima, La casa verde (1966) e Conversación en la Catedral (1969, Conversazione nella "catedral"). Successivamente scrive Pantaleón y las visitadoras (1973, Pantaleón e le visitatrici) e La tia Julia y el escribedor (1977, La zia Julia e lo scribacchino).
Avvia anche una carriera politica, candidandosi senza successo alla presidenza del Perù, come principale antagonista di Alberto Fujimori.

viernes, 17 de septiembre de 2010

Le lezioni di Calvino oggi non bastano più

Ha saputo individuare i problemi della contemporaneità ma non indicare soluzioni. Per queste dobbiamo cercare altrove

Quando nella notte tra il 18 e il 19 settembre di venticinque anni fa Italo Calvino si spense nell'Ospedale di Siena, dopo che i medici avevano inutilmente tentato di salvarlo operandolo alla testa, lo scrittore ligure era arrivato quasi al culmine della sua popolarità e fama. In quei mesi era intento a redigere le sue Lezioni americane, da tenersi di lì a poco ad Harvard, il cui sottotitolo era «sei proposte per il prossimo millennio». In quelle lezioni si va dalla «leggerezza» alla «molteplicità», toccando l'esattezza, la rapidità e la visibilità. La sesta lezione sarebbe stata intitolata Consistency, coerenza. Calvino non ha fatto in tempo a scriverla, ma restano degli appunti, e si sa che si sarebbe riferita a un racconto di Melville, Bartleby.

Oggi che molte delle sue previsioni intellettuali, per quanto riguardanti in primis la letteratura, sembrano essersi avverate - la leggerezza è una delle parole passepartout del postmoderno -, forse la conferenza che ci sarebbe servita di più è quella sulla «coerenza». Bartleby, il personaggio della novella, è un impiegato di Wall Street; lavora presso un avvocato e trascrive atti giudiziari. Se non che, a un certo punto, smette di farlo, e oppone alle richieste del suo principale una frase: «Avrei preferenza di no». Un modo manierato per sottrarsi a ciò che gli è richiesto. Il racconto, che è diventato oggetto di commenti di tanti scrittori e filosofi (da Deleuze ad Agamben, da Borges a Perec), finisce tragicamente con Bartleby che si ritira su se stesso, ostinato, costringe l'avvocato a cambiare studio, resta lì, e infine messo in prigione muore d'inedia.

In questa lezione mancante si concentra tutta l'attualità e l'inattualità di Calvino, il suo appartenere allo stesso tempo al XX secolo e al XXI: un autore della transizione. Il narratore sorgivo del Sentiero dei nidi di ragno e quello riflessivo di La giornata di uno scrutatore, nonché di Palomar, è stato uno degli scrittori per cui all'idea di letteratura si accompagnava anche quella di un impegno per creare una società più giusta. Pasolini, Sciascia, Volponi, Morante, ma anche Manganelli, sono stati antifascisti, iscritti o simpatizzanti del Partito comunista, in altre parole degli intellettuali-scrittori (non scrittori-intellettuali), che hanno fatto della letteratura uno dei punti fondamentali della loro attività. Narratori, certo, ma anche saggisti, polemisti, presenti sui giornali, nelle riviste, dediti alla politica in senso forte. Prima intellettuali e poi letterati, senza piegare la letteratura alle ragioni di partito. Ma pochi anni prima che Calvino morisse, qualcosa è cambiato di colpo.

La letteratura, come questi scrittori la concepivano, è finita. Nasceva qualcosa di diverso sul piano sociale, e dunque anche letterario. A spiegarlo è un altro scrittore, forse l'unico erede di Calvino, e proprio per questo divergente da lui: Gianni Celati. È Celati a far conoscere a Calvino la novella di Melville, e anche Wakefield, il racconto breve di Hawthorne, altro riferimento di Consistency.

In entrambe le storie ci sono due personaggi che si sottraggono alla relazione sociale - lavorativa in Bartleby e famigliare in Wakefield -, alle convenzioni, in nome di una coerenza che trae il proprio fondamento da un disincanto che si è installato nella vita sociale. Con la morte di Moro e l'inizio degli anni Ottanta inizia il cosiddetto «riflusso», va in crisi la politica tradizionale, c'è la fuga dall'impegno. Finisce il mondo di cui Calvino era uno degli interpreti più ariosi, leggeri, e insieme intensi. La società umana, quella italiana, non sa più bene su cosa si fondi il legame che tiene insieme gli individui. Calvino sta su questa soglia e per molti aspetti non sa più che pesci pigliare, come si vede molto bene nei racconti di Palomar. La sua crisi era già iniziata, e si annunciava lunga e complessa.

Forse non aveva più, nonostante la sua indubbia intelligenza gli strumenti adatti per interpretare il cambiamento. Per questo si era rivolto nel 1968 a Celati, il suo Marco Polo, il viaggiatore, mentre lui retrocedeva al ruolo di Kublai Kan, il vecchio imperatore immobile delle Città invisibili, il suo capolavoro, ma anche il suo punto più alto di scacco. Tuttavia Celati non era bastato, e neppure più i vecchi e nuovi maestri parigini. All'inizio degli anni Ottanta Calvino era un intellettuale-scrittore in panne, il cui motore, perfetto e oliato, girava a vuoto. Era sospeso nel vuoto della fine del XX secolo. Somigliava sempre più a Bartleby, e come lui incarnava un lutto; e l'accentuarsi del suo manierismo letterario era anche la conseguenza del suo «avrei preferenza di no».

Ora non sappiamo cosa avrebbe scritto riguardo alla «coerenza», però un'ipotesi, seguendo il suo Marco Polo, si può formulare. Bartleby, ha scritto Celati, è la figura che pone il problema delle sacche di estraneità che si formano all'interno della vita sociale. Problema che nasce con la nascita delle grandi masse anonime nella vita urbana, «dove non si possono più nascondere le distanze assolute che separano gli individui». La solitudine è l'esperienza fondamentale della contemporaneità su cui s'innestano, pur nella loro diversità, sia il fascismo novecentesco sia il Grande Fratello. Calvino sta al di qua di questa soglia, indica il problema, ma non fornisce soluzioni. Un grande scrittore, senza dubbio, un grande moralista, e insieme un agilissimo saggista. Ma per andare avanti non basta più, bisogna cercare altrove. Dopo Calvino.

MARCO BELPOLITI

jueves, 16 de septiembre de 2010

Fotografo di Luther King era una spia

Rivelazione shock da Memphis: l'autore dei celebri scatti sulle marce per i diritti civili, afroamericano e amico del leader, lavorava per l'Fbi

La doppiezza privata di un uomo svuota anche le sue opere? Le immagini, le emozioni, le idee che costruisce intorno a una passione, a una causa, e che ispirano milioni di altri uomini, si svuotano se questo uomo poi vende, tradisce, in privato, quella stessa causa?

Oppure c'è una netta distanza tra il prodotto e il suo stesso creatore, una sorta di filo del rasoio della coerenza, un varco che è meglio non attraversare? Insomma può un debole uomo essere anche un grande uomo, un eroe, un artista – e se sì, come lo si giudica? Con quale lato della sua vita?

La storia è piena di queste domande. La storia del secolo alle nostre spalle, in particolare, con le sue forti ideologie e i suoi milioni di morti. Secolo di ambiguità da cui davvero pochi sono emersi puri. Il premio Nobel Günter Grass, con la sua gloriosa scrittura e la sua tardiva ammissione di aver militato nelle Waffen-SS, è ancora lì nell'anticamera del nostro scontento, nell'incertezza di un giudizio che lacera il nostro bisogno di sicurezza. Ed ecco che gli archivi, questi cerberi della verità fattuale, vomitano una nuova sconcertante versione. Intaccando una storia finora considerata tra le più perfette, le più sante, del nostro passato recente: il movimento per i diritti civili in America.

Il quotidiano The Commercial Appeal, autorevole giornale di Memphis, Tennessee, ha trovato le prove che Ernest C. Withers, fotografo e amico di Martin Luther King, celebre e celebrato biografo della lotta dei neri americani, era in realtà una spia dell'Fbi, identificato dal Bureau come «confidential informant number ME 338-R». Per ora ci sono 360 pagine che raccontano la doppia storia di quest'uomo. Ma molte altre - secondo il giornale, che ha ottenuto gli atti attraverso il Freedom of Information Act con una richiesta del 2007, dopo la morte del celebre fotografo - sono ancora coperte da segreto. A leggere cinicamente il racconto del quotidiano, non si può che elogiare l'abilità dell'Fbi: se c'era un uomo che aveva accesso a tutto e a tutti, dentro la comunità nera di quegli anni, questo era proprio lui, Ernest Withers.

Era lì, con il reverendo King, nelle ultime ore della sua vita, e arrivò per primo a fotografarlo, unico giornalista che ebbe accesso alla stanza dove il leader dei diritti civili giaceva riverso nel sangue. Lo stesso Withers avrebbe raccontato come, dopo lo sparo, arrivò nella stanza 306 del motel Lorraine e cominciò scattare, mentre la polizia teneva lontani tutti gli altri. Intorno a King morto ci sono Bernard Lee, con la cravatta allentata, il giovanissimo Andrew Young che segnala con la mano di stare tutti calmi, e Ben Hooks e Harold Middlebrook che guardano nel vuoto. A terra c'è la borsa con i documenti di Luther King. È il 4 aprile 1968. Il rapporto dell'Fbi letto dal quotidiano porta la data di pochi giorni dopo quello stesso mese, quello stesso anno, il 10 aprile 1968.

Nelle pagine c'è la prova del peggiore dei tradimenti: il fotografo che seguiva passo per passo il reverendo aveva riportato al Bureau ogni minuto delle attività del leader fino al suo assassinio, e anche dopo. Withers racconta agli agenti del governo americano dell'incontro che King aveva avuto con militanti neri sulla lista dei sospetti dell'Fbi, e dopo l'uccisione racconterà a quegli stessi agenti tutti i dettagli del funerale. Il suo lavoro continuerà fino almeno al 1970, e sarà accreditato dal Bureau come rilevante nell'identificare e smantellare il lavoro dei gruppi di neri più radicali che alla fine degli anni Sessanta cominciarono a sfidare le tattiche sociali e pacifiste del movimento dei diritti civili.

I dettagli del tradimento sono tanti. Ma molte di più sono ora le domande che questo tradimento ha suscitato. Perché lo fece? Per soldi, dicono alcuni – l'uomo aveva molti figli e pochi mezzi. C'è chi dice che forse il suo fu il cedimento a un ricatto: da giovane pare fosse stato coinvolto in una vicenda di illegalità che gli venne poi perdonata.

Ma nessuna di queste ragioni davvero spiega nulla. Forse la radice di questa ambiguità va ricercata nel clima di quegli anni, che certo non furono né semplici né lineari come oggi li preferisce ricordare la versione ufficiale. La comunità nera era profondamente divisa - negli obiettivi, nei metodi e, anche, nelle ambizioni. Martin Luther King fece un miracolo nell'unificare un movimento, e il destino successivo del gruppo che per un breve periodo si formò intorno a lui è la dimostrazione a posteriori delle diversità di visioni che sotto la guida di King continuavano a scontrarsi.

In questo senso, Withers è forse oggi il caso più clamoroso. Ma certo non è stato l'unico. La storia del movimento per i diritti civili ha un lato oscuro, come oscuro è il lato di molti episodi non del tutto spiegati della storia degli Usa. La scoperta dell'attività del fotografo rilancia molte domande che forse sono state troppo spesso lasciate senza risposte. Non è un caso che il giornalista del quotidiano The Commercial Appeal abbia cominciato la sua ricerca sulla base delle teorie del complotto che da sempre circondano la morte di King. Una di queste teorie fu proposta proprio dall'uomo che lo uccise, James Earl Ray, che continuò a chiedere all'opinione pubblica Americana perché la famosa sorveglianza con cui l'Fbi seguiva King fu improvvisamente sospesa proprio in quell'aprile del 1968.

La comunità nera si domanda cosa fare ora di questo eroe. Andrew Young ieri si è espresso con pena e moderazione su di lui, dicendo che i suoi errori non cambieranno il valore di quello che ha fatto.

Ma l'assoluzione non basta, e non consola. Soprattutto se si guarda oltre la vicenda e si pensa all'oggi. Quanti Ernest Withers ci sono, in questo momento, in questa epoca di terrorismo, in circolazione negli Stati Uniti e nel mondo?

Lucia Annunziata

domingo, 29 de agosto de 2010

"La nostra Disneyland terra di famiglie inquiete"

+ A me neanche piacciono i pirati SIMONE LAUDIERO
+ Dentro i confini del parco SIMONA SPARACO
+ Lo spirito giusto LUCA RICCI
+ Perla EMMANUELE BIANCO
+ Facciamo testa o croce CARLA D'ALESSIO




Cinque giovani scrittori della Scuola Holden reinventano la patria di Topolino. Tema ricorrente i contrasti tra padri e figli e il tentativo di ricomporli nell'oasi di fantasia e creatività




«Nananaaaa na na na na»: come capita in tutte le gite scolastiche, i partecipanti piuttosto speciali al viaggio a Disneyland che andiamo a raccontarvi a un certo punto hanno cominciato a usare, oltre a un lessico comune, anche una colonna sonora collettiva. Nel caso «la canzoncina It's a Small World», spiega uno dei cinque, Simone Laudiero, «che nel parco viene cantata non mi ricordo più se da un gruppo di uccellini, di scoiattoli o di soldatini di piombo». Piano piano, quel «na na na» è entrato in testa a tutti: contemporaneamente, le difese di chi all'inizio si mostrava scettico cadevano e il balsamo zuccherino della regressione infantile otteneva il suo infallibile effetto. L'idea che è venuta alla Disney è originale e anche un po' perversa. Prendi cinque scrittori italiani emergenti, quattro usciti dalla Scuola Holden e uno (Luca Ricci) che in ambito Holden lavora, e mandali nel parco di Topolino a Parigi per vedere l'effetto che fa. Poi mettili tutti a scrivere dei racconti, lasciandoli liberi di inventare quel che gli pare e mantenendo soltanto il vincolo della location. Titolo dell'operazione: «Raccontami un sogno».

Motivo della scelta dei cinque novissimi: la celebrazione del «Festival della nuova generazione», per marcare l'arrivo a Disneyland Paris, accanto ai characters storici, di personaggi più recenti e perfino in 3 D, tipo Buzz di Toy Story, Remy di Ratatouille e Tiana della Principessa e il ranocchio.I cinque frutti della gita scolastica li abbiamo qui: si chiamano Perla di Emmanuele Bianco, Dentro i confini del parco di Simona Sparaco, A me neanche piacciono i pirati di Simone Laudiero, Lo spirito giusto di Luca Ricci, Facciamo testa o croce di Carla D'Alessio. Qualcuno (Laudiero) gioca il registro del dietro le quinte, un altro (Luca Ricci) prende spunto dal paradigma disneyano dell'animale antropomorfo per costruire una puntuta favola darwiniana, dove Cip e Ciop non sono esattamente i batuffoli iperattivi che fanno impazzire Paperino, molti si trovano a mettere in scena una certa distanza emotiva fra bambini e adulti, magari con l'happy ending (Carla D'Alessio) magari no (Sparaco): tutti si dicono toccati dall'esperienza, forse perfino frastornati; può perfino essere che qualcuno di quei racconti finisca per essere il nucleo di un romanzo che compreremo fra due o tre anni in libreria.

Sparaco praticamente giocava in casa: «Del mondo Disney sono una fanatica, quando mi hanno fatto la proposta non ci ho pensato un minuto. Ero già stata nei parchi di Burbank, di Orlando e di Hong Kong, e naturalmente anche a quello di Parigi. Però non ci avevo mai dormito dentro, e invece quello fa la differenza, perché un conto è starci un pomeriggio e un altro tre giorni: il bello è perdere il senso della realtà». L'albergo che l'ha ospitata, l'Hotel Cheyenne in stile western, è entrato infatti nel suo racconto, porte da saloon, mezzogiorni di fuoco e tutto; mentre molti dei suoi compagni hanno subito il fascino del ristorante della principesse, praticamente un'eden per bamboline sugli otto anni.Per un'entusiasta, uno che all'inizio mostrava le sue riserve, ma che poi ha trovato una chiave interpretativa. Luca Ricci:«Se ti trovi in un mondo tutto artificiale, sostitutivo della realtà, la sfida sta nell'andare a pescare gli elementi di squallore che rimangono nel quadro: i bidoni della spazzatura, il bambino che piange.

Quando mi sono messo a scrivere, volevo mantenere l'equilibrio, essere leggero ma anche un po' cattivo». Raccontano i cinque che il momento clou è stato l'incontro con Laurent Cayeula, un signore sui 35 anni architetto e con esperienze di teatro, che alla Disney lavora come imagineer, e spiegare che cosa vuol dire è poi arrivare al nocciolo della faccenda, perché gli imagineer sono quelli che prendono un personaggio o un film Disney e li trasformano in attrazione. «Un esempio perfetto di storytelling», lo definisce Sparaco, e come altro chiamare il processo per cui «se decidi di mettere sulla Main Street un negozio di caramelle devi ricostruirti il personaggio del caramellaio, la sua storia, le sue motivazioni»? Roba che in Europa neanche ci sogniamo. «E questo è niente», aggiunge Ricci. «Lo sa che il parco è costruito in modo che si percepisca, dall'entrata al luogo dove sono le attrazioni, un rimpicciolimento in scala? Roba dell'altro mondo». Letteralmente. Da quando sono tornati, i cinque hanno cominciato a sognare in technicolor: forse anche i famosi elefanti di Dumbo, molto rosa e molto psichedelici.

Egle Santolini

martes, 24 de agosto de 2010

a chiave dell'evoluzione della specie? Lo spazio, la competizione non c'entra

Non è la competizione, ma lo spazio disponibile la chiave per l'evoluzione della specie e l'aumento della biodiversità.
È questo l'assunto chiave di uno studio apparso sul prestigioso bimestrale della Royal Society “Biology Letters”, e che sembra destinato a scuotere alle fondamenta la visione darwiniana della sopravvivenza del più adatto.

Un team di ricercatori dell'Università di Bristol ha utilizzato i resti fossilizzati di mammiferi, rettili, uccelli e altri animali per dimostrare una correlazione fra lo spazio vitale disponibile per ciascuna specie e il grado di biodiversità presente in una data area. Sono state analizzate 840 famiglie di fossili, in rappresentanza di un ampio spettro geografico, cronologico ed ecologico. Secondo gli studiosi, coordinati dallo studente di dottorato Sarda Sahney, i grandi passi avanti nell'evoluzione, si verificano quando gli animali si spostano in aree non occupate da altre creature.

«Per esempio – ha spiegato alla Bbc il professor Mike Benton, coautore dello studio – anche se gli esseri umani hanno vissuto accanto ai dinosauri per 60 milioni di anni, non sono stati in grado di avere la meglio su questi rettili. Ma quando i dinosauri si sono estinti, i mammiferi hanno riempito in fretta la nicchia ecologica rimasta libera e oggi essi dominano la terra». I ricercatori fanno anche l'esempio dei volatili: quando hanno cominciato a solcare i cieli, si sono guadagnati l'accesso a una vasta area in cui prosperare ed evolversi senza incontrare ostacoli.

Gli scienziati inglesi non negano tuttavia del tutto l'importanza della competizione nell'evoluzione della biodiversità, anche se ritengono che essa abbia un influsso soltanto indiretto. «Anche se la storia dei tetrapodi non presenta prove di competizione diretta – scrivono infatti - ce ne sono invece di competizione nel senso di sostituzione incombente; gruppi consolidati possono escludere i concorrenti, anche se questi posseggono dei vantaggi in termini di adattamento, a meno che i primi non vengono rimossi da una grande calamità naturale, come un'estinzione di massa, nel qual caso la maggiore adattabilità permette al gruppo invasore di occupare l'area prima che i vecchi occupanti possano riprendersi».

Naturalmente, la teoria del gruppo di Bristol ha suscitato immediato interesse, ma anche alcune perplessità. I dati raccolti dagli studiosi possono essere infatti interpretati anche in altri modi. «Da cosa deriva la spinta a occupare nuove porzioni di spazio ecologico, se non dalla necessità di evitare la competizione con le specie che già occupando un dato luogo? – ha sottolineato il professor Stephen Stearns dell'Università di Yale».
Federico Guerrini

sábado, 21 de agosto de 2010

Giovani scrittori imparate dall'America

La scrittrice Catherine E. Morgan

Il dibattito sui nuovi autori italiani: molti di loro sono velleitari. Oltreoceano c'è chi come la Morgan dimostra un altro spessore
E' giusto, nel vastissimo mare dei romanzi di nuovi autori che negli ultimi anni appesantiscono i banchi dei librai, cercare di fare il punto della situazione, di capirci qualcosa soprattutto da un punto di vista letterario, in un tempo che sembra privilegiare solo i numeri e le vendite. Il supplemento domenicale del Sole 24 Ore ha interpellato in questo senso vari critici, mettendo in moto un'idea di riflessione necessaria (sull'argomento è intervenuto anche Cordelli sul Corriere). Iniziative come queste sono utili, purché non si arrivi (come oggi si tende a fare da più parti) a stilare classifiche, che sono in fondo la negazione della critica e la brutta copia delle classifiche di vendita. Ho apprezzato anche l'intervento di Andrea Cortellessa, che sottolineava giustamente la maggiore vitalità (e direi libertà) della poesia giovane rispetto alla narrativa under 40, anche se le sue scelte coincidono solo in parte con le mie e se penso che definire la Biagini caposcuola sia piuttosto improprio.

Venendo ai narratori, devo dire che la ricerca ossessiva della novità e del talento giovanissimo ha contribuito a rendere più caotico il panorama complessivo. Tanto che oggi le motivazioni che muovono un narratore non sembrano più, essenzialmente, quelle di praticare un'arte, ma di trovare il modo di pervenire a un generico successo. Molte, insomma, le presenze velleitarie o acerbe, molti i romanzi che sanno più di sociologia spicciola che di letteratura e dunque di poesia e ricerca di scrittura e stile. Certo molto mi sfugge, visto che nelle tantissime uscite distribuite in libreria è difficile orientarsi, a meno di non leggere nient'altro; e dunque sono certo di aver perso molto del meglio. Ma è anche vero che la frequente nascita di «grandi stelle» rende un po' troppo funzionale il paesaggio della nostra narrativa al sistema del varietà totale nel quale quotidianamente siamo immersi.

Non certo per snobismo, ma per semplice curiosità e per una felice combinazione, mi è capitato di leggere in questi giorni estivi l'opera prima di una scrittrice americana nata, se non sbaglio (la notizia biografica del libro non indica l'età), nel 1976. Si tratta di Catherine E. Morgan, autrice di Tutti i viventi (Einaudi, p.204, € 18,50), romanzo molto bene accolto e premiato negli Stati Uniti, e che pure nella semplicità della sua storia, e nella sua linearità, mi è parso un libro di qualità insolita e di già evidente maturità espressiva. L'autrice non cerca scorciatoie o astuzie persuasive. Racconta di due giovani nel Kentucky, che si mettono assieme dopo una tragedia che ha cancellata la famiglia di lui, Orren, che è un ruvido contadino intenzionato a vivere nella fedeltà alle origini, nella continuità con il lascito familiare, mentre la ragazza, Aloma, è più vibrante e sensibile, amante della musica e pianista.

Il lettore viene coinvolto da una scrittrice che riesce a far comprendere, in ogni dettaglio, l'importanza decisiva, nell'esperienza umana, del rapporto diretto e fisico con il reale; rapporto di cui oggi sempre più siamo spossessati. C'è qualcosa di poeticamente ruvido e concreto nelle sue descrizioni, nel suo modo di rappresentare un mondo periferico e quasi astorico. Un mondo, quello del cuore degli Stati Uniti, che ha dato molta grande narrativa. la Morgan ha certo ben presenti Carson McCullers e Flannery O'Connor. Ma non può certo non aver amato l'immenso William Faulkner, o anche il più vicino Cormac McCarthy. Da un lato, nel suo racconto, il contadino legatissimo alla terra, dall'altro la ragazza che ama l'arte, che si realizza nella gioia del contatto con una tastiera di pianoforte e che troverà anche il fascino di una spinta ideale nella figura di un giovane prete di campagna. Ma, appunto, le due diverse realtà di Orren e Aloma sentono il bisogno oscuro di relazionarsi, di coesistere e sovrapporsi, alimentandosi reciprocamente.

Io credo che questa scrittrice possa costituire un esempio molto interessante, non tanto come modello possibile a cui rifarsi. Quanto per la dimostrazione che mi sembra dare di una ricerca che non può non essere condivisa da un vero scrittore: quella della paziente costruzione di un'opera nella verità personale, nella forza dello stile, nella tenace pratica di un'arte straordinaria come è quella del narrare. Considerando pubblicità e successo immediato come puri accidenti, come conseguenze marginali, e dunque del tutto secondarie.
Maurizio Cucchi

domingo, 30 de mayo de 2010

Biennale Danza 2010: “Ossigeno”, piedi fasciati e “belle figure”

«Oxygen», ossigeno dà il via alla Biennale Danza. Come da tradizione, ormai, il battesimo del Festival viene impartito dal suo direttore, Ismael Ivo, che apre il sipario con i giovani talenti dell’Arsenale. Ventidue giovani scelti e addestrati nel cuore della Biennale nel segno del contemporaneo. Pronti a tendere muscoli e carne in una drammaturgia di corpo e respiro. Bianco-velata, ondeggiante sulla musica rarefatta di Arvo Part (dal vivo, con l’Orchestra di Padova e del Veneto diretta da Maffeo Scarpis), a sequenze alternate. Un assaggio della giovane generazione di danzatori in crescita, più che un’opera vera e propria. Un preludio a quello che è invece il vero focus della Biennale 2010, concentrato sulla danza canadese (e sull’Australia nella seconda parte).
Il primo artista canadese a scendere in palco, in realtà è cinese: Wen Wei Wang. Ma da anni risiede a Vancouver dove ha fondato la sua compagnia.

Danza occidentalizzata la sua, con la quale ripescare tracce di memoria cinesi. “Unbound” si ispira alla crudele tradizione di fasciare i piedi delle bambine cinesi per impedirne la crescita. Il piede-bonsai concedeva un’andatura ondulata agli occhi degli astanti (e atroci dolori a coloro che ve ne erano state costrette). Wen Wei trasforma quell’immaginario in un catalogo di passerelle per umani - uomini e donne - intenti a scalare vertiginose scarpe rosse, che incedono nello spazio intrecciando relazioni incerte con l’altro. Districandosi in trii ambigui (coreograficamente molto ben costruiti) e assoli sgomenti. Troppo laccato per essere drammatico, “Unbound” si staglia nel buio con l’interessante mosaico di luci di James Proudfoot. Una selva di corpi dove non ci si perde d’emozione.

Il secondo appuntamento con il Canada è con Les Grands Ballets Canadiens de Montréal. VIDEO Compagnia di vetrina, e di gran lustro, è diretta con mano elegante dal macedone Gradimir Pankov, nel segno di un contemporaneo che sa già di classico. Per esempio, quando prende in prestito il repertorio di Jiri Kylian. “Bella figura”, ispirata all’armonia dell’arte italiana, accende la serata di squarci di bellezza mozzafiato. La coreografia risale al 1995 ma solo anagraficamente: è un fuoco di invenzioni coreografiche, un’allegria di scherzi di danza. Impeccabile nel disegno, musicalissima nella sua tessitura, piena di sorprese. Un capolavoro.

Cade, invece, nell’irresistibile attrazione da capolavoro, il belga Stijn Celis, che firma una nuova (2009) versione de “Le Sacre du Printemps”. Da quando, nel lontano 1913, l’iconoclastico balletto di Nijinskij e la “barbarica” musica di Stravinsky sconvolsero le platee di Parigi, qualche coreografo si prende la briga di rivisitarlo. Celis ha buone doti, ma non ha un’ispirazione pari a quella di Mats Ek nel ri-creare una Giselle contemporanea, né la felice inventiva di Matthew Bourne e del suo “Lago dei cigni”. Così Celis resta solo offuscato dalla memoria dell’originale (e di versioni più forti ed efficaci), nonostante abbia il raro talento di amministrare le masse dei ballerini. Il suo “Sacre” ridimensiona un rito tribale e feroce a scossoni emotivi di ragazzi e ragazze. Riti del quotidiano, cerimonie di transito dal gruppo alla coppia, dall’individuo alla massa. Qualche freschezza, poco dramma.
Svettante la compagnia, affiatata, piena di ottimi elementi, in grado di virare dal gesto apparentemente informale alla stilizzazione elegante. Una meraviglia.

Rossella Battisti