martes, 20 de enero de 2009

Sono i musei le vere piazze d'America


ALAIN ELKANN E ANGELO CRESPI
Per superare la crisi gli americani adesso sperano in Obama e in un investimento pubblico di 700 miliardi di dollari. Il neo presidente ha però detto che uno dei punti di forza del suo mandato sarà il rilancio della cultura. Per questo l’America, che non ha siti archeologici, borghi medievali o rinascimentali e neppure piazze, punta sui musei. Così a Boston, a Dallas, a Fort Worth, a San Diego e Washington sorgono moderni distretti museali, con spazi espositivi, cinema e teatri e giardini e bar e ristoranti, dove la gente s’aggira e fortifica quell’identità di nazione che in realtà già possiede. Dentro i musei capisci perché l’America è in verità l’Europa ordinata e acculturata che abbiamo sempre desiderato noi europei senza poterla avere. Dentro i musei comprendi anche l’amore sincero che l’America prova per l’Europa, condito da un atavico senso di inferiorità che è stato colmato negli anni acquistando - come si fa coi blasoni per retrodatare la propria nobiltà - nostre opere d’arte in quantità esorbitante. Industriali e finanzieri, ricchi tycoon del petrolio o dell’agricoltura fin nel più sperduto paese, hanno messo insieme collezioni uniche di Tiziano, Rembrandt, Canaletto, Matisse, Picasso, Modigliani, Mirò elargendole poi a fondazioni e trust che ora le espongono al pubblico. In ogni museo i benefattori sono a centinaia e le sale portano la firma della famiglia donante, come succede in Italia nelle chiese dove le panche recano il nome di chi le ha regalate ex voto. È la borghesia ricca, più che il capitale ad aver fatto grande l’America. Una borghesia che sfrutta gli sgravi fiscali disponibili per gli investimenti in cultura, ma che possiede comunque un forte senso di responsabilità comunitaria, di fatto la consapevolezza del proprio ruolo. Per questo non sorprende in America, visitare la Rachofsky House a Dallas, un edificio disegnato da Richard Meier, e ad attenderti sulla porta c’è proprio Mr. Rachofsky in persona, sessantenne ben tenuto e ben vestito, che ti fa visitare la sua casa museo dentro la quale espone la sua collezione di arte italiana con pezzi di Cattelan, Boetti, Merz, Fontana, Manzoni, Paolini, quasi che abitasse in Brianza. Nelle città americane non ci sono piazze: disegnate incrociando le strade in linea retta come succedeva nell’accampamento romano, non prevedono alcun foro. A San Diego, ad Atlanta, a Dallas, nonostante milioni di abitanti non c’è nessuno in giro a piedi. Se vuoi incontrare qualcuno devi andare in un Mall, oppure al museo. A Dallas migliaia di persone affollano il Nasher Sculpture Center, famiglie e bambini nei giardini tra le opere giganti di Richard Serra e Jonathan Borofsky; a San Diego tutti passeggiano al Balboa Park un distretto con 21 musei; al Metropolitan di New York l’ultimo giorno dell’anno, la ressa è simile a quella di Time Square dove i più coraggiosi hanno aspettato nel freddo glaciale il countdown di mezzanotte fin dalle tre di pomeriggio. I musei americani sono accoglienti. Anche i direttori sono giovani, poco burocratizzati, quasi sempre storici dell’arte con una formazione manageriale. Al Metropolitan di New York, uno dei musei più importanti del mondo, il nuovo direttore Thomas Campbell ha 46 anni. A Los Angeles al County Museum, il nuovo direttore Michael Goven ha 43 anni, mentre al Getty Michael Brand ne ha cinquanta e me dimostra dieci in meno. Katherine Getchell, la giovane direttrice a Boston, ad un certo punto, mancando un addetto, si infila il grembiulino delle guide e si mette alla porta ad accogliere i visitatori. A Reno Nevada, il direttore dell’Art Museum David B. Walker ha poco più di 30 anni e i capelli lunghi. Mentre a Dallas la curatrice per la pittura europea, Heather Macdonald, sembra una ragazzina quanto un ragazzino il suo equivalente al Getty per la pittura italiana, Peter Bjorn Kerber. C’è energia in questo mondo dei musei, malgrado la crisi che fa accatastare invendute le automobili nei parcheggi delle concessionarie ai bordi delle freeway l’America investe in cultura. Al County Museum di Los Angeles, il direttore Govan mostra con orgoglio l’ampliamento in corso. Al Kimbell Museum di Fort Worth, uno dei musei più raffinati degli States, il direttore Malcolm Warner ci mostra soddisfatto il modellino della sede che dovrà essere eretta a breve. Entrambi i progetti sono di Renzo Piano, come di Piano è la nuova ala dello High Museum di Atlanta. Dovunque ti giri c’è un edificio costruito dall’architetto genovese che è una sorta di riconosciuto autorevole ambasciatore della cultura italiana. A contendergli il primato, Richard Meier di cui si può visitare l’abbacinante Getty. Il reparto restauri è condotto come un centro bio medico, mentre l’archivio fotografico, con oltre 250mila stampe, è refrigerato al pari di una fabbrica di nano tecnologie, tutto a prova di terremoto: qui si apprende il senso reale del termine «conservazione». L’America che a noi spaventa, quella dell’imperialismo, dell’egemonia culturale di Hollywood, fa la fila davanti a un Guercino o a un Guido Reni. I curatori ti mostrano con riverenza le sale degli italiani, i Raffaello, i Tiziano, i Canaletto, i Tiepolo, i Bellini, i Mantegna e poi i tanti minori che da noi magari giacciono impolverati nei sotterranei. Benché il mercato non tiri fanno comunque acquisti: al County Museum di LA hanno appena comperato tramite un nostro mercante d’arte una Madonna con bambino di Cima da Conegliano, così al Getty un prezioso Guido Cagnacci. Anche alla National Gallery di Washington, l’unica istituzione museale finanziata direttamente dallo Stato, il curatore David Alan Brown ci fa visitare con entusiasmo una mostra dedicata a Pompei che è allestita in parte con pezzi provenienti dagli scantinati dei nostri musei, pezzi mai visti in Italia ripuliti e valorizzati come noi, appesantiti oltremodo dal nostro patrimonio, non riusciamo più a fare. Quando entri in un museo americano e sanno che sei italiano ti trattano con rispetto. È il riflesso della grandezza della nostra arte di un tempo. I direttori e i curatori delle collezioni, nonostante i lunghi rapporti con le nostre Sovrintendenze, sono molto attenti al lavoro della Fiac, una fondazione americana con sede a New York, voluta e creata dal Ministero dei Beni Culturali, che da anni è impegnata nella diffusione della cultura e dell’arte italiana negli Stati Uniti e che ha già organizzato mostre di capolavori assoluti quali la Fornarina di Raffaello e l’Antea di Parmigianino alla Frick Collection di New York, o nei musei di Houston e Indianapolis, oppure di due capolavori di Antonello da Messina al Metropolitan, o i disegni di Leonardo da Vinci prestati dalla Libreria Reale di Torino ai musei di Burmingham Alabama e San Francisco… Tra sogni dei musei americani ritorna più frequente il desiderio di avere in prestito quattro o cinque Caravaggio, qualche Raffaello, magari alcuni Tiziano, oppure opere dei futuristi, di Fontana o di Merz. Alla National Gallery di Washington sarebbero entusiasti di poter festeggiare il nuovo presidente degli Stati Uniti Obama con una mostra dedicata ai Bronzi di Riace. Chissà se si potrà.

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