miércoles, 14 de enero de 2009

Uomini in cerca delle radici

FRANCESCO POLI
PARIGI

Attraverso la messa in scena di uno stimolante confronto, allo stesso tempo contraddittorio e complementare, fra i differenti punti di vista del fotografo e filmmaker Raymond Depardon e dell’urbanista e filosofo Paul Virilio, la mostra «Terre natale» propone una riflessione generale sullo stato attuale dell’umanità a partire dalle nozioni cruciali di radicamento e sradicamento. Il progetto è incentrato sull’opposizione estrema fra l’identità delle popolazioni «immobili», che da sempre hanno vissuto nella loro terra, e quelle coinvolte nell’iperdinamico processo della società globale. I due autori si sono posti inizialmente la seguente domanda: «Che cosa è rimasto di questo mondo, della nostra terra natia, della storia di ciò che fino a ora è il solo pianeta abitabile?». Depardon ha realizzato due bellissimi documentari cercando da un lato di cogliere, attraverso una serie di interviste a persone di comunità marginali e residuali in Brasile, Bolivia, Etiopia, il senso profondo del rapporto primario fra esistenza e territorio, e dall’altro lato, al contrario, di registrare, durante un viaggio di quattordici giorni intorno al mondo la dimensione fluida e per molti versi anonima del movimento frenetico delle persone nelle grandi città. Nel primo film proiettato su uno schermo monumentale uomini e donne Chipaya, Quechua, Yanomami, Guarani, Kawesqar e Afar, ci parlano con toni appassionati e nostalgici della loro terra, della loro vita, delle loro tradizioni, ma anche della loro povertà e dell’angoscia per i loro figli senza futuro. Il suono di lingue sconosciute e le espressioni dei volti ci trasmettono un senso di straniante lontananza spaziale e temporale. Alla melanconica staticità della realtà dei dimenticati da tutti, fa da contrappunto la visione del reportage impressionistico, senza parole e suoni, costruito con rapide sequenze di gente che cammina (come scorre il traffico) nelle strade in grandi città, da Washington a Los Angeles, da Tokyo, a Ho Chi Minh City, da Singapore a Città del Capo: facce diverse ma abbigliamenti e comportamenti sempre più simili in apparenza.Nella seconda parte del percorso espositivo si passa da un taglio antropologico a uno sociologico, con la regia di Virilio e il sofisiticato allestimento multimediale degli architetti Diller Scofidio e Renfro. Virilio, che da trent’anni studia la trasformazione delle esperienze di tempo e spazio nelle società contemporantee determinate dalla progressiva velocizzazione dei mezzi di comunicazione e di informazione, accoglie in prima persona i visitatori, attraverso un filmato per spiegare il senso del suo intervento, proponendo una definizione decisamente spiazzante dei concetti attuali di sedentarietà e di nomadismo: «La natura della sedentarietà e del nomadismo sono radicalmente cambiati. Il tipo sedentario è quello che, con il suo cellulare e il suo computer portatile, si sente a casa sua dovunque, in un’ascensore, in un aereo o su un treno ad alta velocità. Questo significa essere sedentari, mentre un nomade è una persona che non si sente a casa propria in nessun posto». In altri termini, il vero sedentario, in questo senso, è ormai quell’individuo che ha interiorizzato senza più problemi la cultura del movimento e la dimensione dei «non luoghi», mentre persino lo stanziale, attaccato alla sua città e al suo territorio, sentendosi minacciato dai flussi migratori e da tutto ciò che viene dall’esterno (percepito come «diverso» che incombe) si sente nomade, e ha paura di di perdere le sicurezze del proprio tradizionale radicamento. Queste idee prendono forma i due sale. Nella prima, un’installazione visiva costituita da un centinaio di schermi televisivi sospesi in alto (che funzionano come finestre sul contesto globale) si vedono frammenti di notizie e immagini di esodi e spostamenti collettivi. La seconda sala è animata da una serie di spettacolari grafici elettronici che mostrano i processi di concentrazione umana nelle megalopoli; la circolazione delle rimesse degli emigranti da un paese all'altro; i percorsi degli emigranti per ragioni politiche e di guerra e quelli di chi va a cercare lavoro altrove; e infine la crescita dei disastri naturali e

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