viernes, 2 de abril de 2010

To be or not to be: inglese, tu m'hai provocato...

tutti gli articoli dell'autore C’era una volta «trend negativo» e c’è ancora. Moltiplicato per briefing, feedback, brunch.

Perché in barba a Nanni Moretti gli italiani, ormai, taggano, mandano poke, hanno un background, fanno stage. Così che parlare l’italiano vuol dire inciampare in un prestito linguistico per ogni frase pronunciata: «Oggi sto davvero down», «Il prossimo week vado in montagna», «Domani sono out». Prendiamo in prestito parole dall’inglese scomodandolo in continuazione neanche fossimo sul lastrico. «È un fenomeno non contrastabile, - spiega Alessandro Serpieri, professore emerito di Letteratura Inglese presso l’Università di Firenze, il più grande traduttore di Shakespeare vivente - l’inglese è diventata la lingua franca per la forte presenza culturale americana, più che inglese, e perché è la lingua che impera su internet». Così mentre i francesi «cercano di mettere un freno: loro hanno un entroterra purista», noi italiani siamo "dirty" fino al midollo. L’ordinateur per noi è un computer e «le Sida» si chiama Aids, anche se per sciogliere l’acronimo dobbiamo pensare al contrario: acquisita immuno deficienza sindrome. E nessuno lo sa fare. Che sarà mai, tutto sommato, l’importante è sapere cos’è. Bello, bellissimo lo scambio culturale e linguistico, l’apertura generosa verso l’altro. Troppo nazionalisti i france e troppo retrò gli spagnoli che addirittura chiamano la serie televisiva americana Perdidos anziché Lost, e il divo Tom Crusero. Noi italiani – Moretti a parte - siamo decisamente più cool. Eppure, se l’atteggiamento conservatore dei francesi per la loro lingua può tradurre una forte identità nazionale. Se quello spagnolo suona come i nostri vecchi libri di Storia, dove Thomas More era Tommaso il Moro, e che dire di Francesco Bacone. Anche lo sbracamento italico di fronte a Your Majesty The English language avrà qualche pummarola n’goppa. Si legge, per esempio, nei dati dell’Istat che tra gli italiani solo il 5,1 per cento parla un’altra lingua (dati del 2007). Imbarazzante: ce l’abbiamo sempre in bocca, ma non lo sa parlare nessuno.

«È ancora parlato e pronunciato male da noi perché non c’è stato un investimento massiccio da parte della scuola nell’apprendimento dell’inglese. – interviene ancora il noto anglista - Anche in Francia, per esempio: i francesi lo parlavano malissimo, ma nonostante il purismo, adesso lo parlano molto meglio». In Italia, invece, la pen is ancora on the table, e da lì non sembra voler muoversi. Quel che rubiamo, poi, è spesso rubato male: se l’indomani non dobbiamo lavorare, in inglese si direbbe che è un giorno off, per esempio, e non out. Mentre stage, che pronuciamo steig, in inglese è utilizzato per indicare un palco o una fase sì, ma non esattamente un apprendistato. Lo prendiamo in prestito, in realtà, dal francese, e lo acclimatiamo a regole di pronuncia di un’altra lingua ancora: un esempio di prestito acclimatato che avrebbe acceso gli appetiti di Ferdinand de Saussure. Monica Lewinsky, in poche parole, non era una stagista, perlomeno non in inglese, ma una trainer o una fortunata vincitrice di una internship alla Casa Bianca. E tutta l’Italia, da Facebook in poi, si chiede cosa mai sia un poke. Lo parliamo poco e male, è vero, ma col giusto business plan e un serio briefing a vendere la fontana di Trevi ci impiegheremmo un attimo. Ci traduciamo in inglese così in modo perfetto: «Facciamo cose, vediamo gente».

Ecco il nostro modo di parlarlo, un po’ spaccone e un po’ cialtrone, tutto wisky, soda and rock n’roll. «Un fenomeno adolescenziale», per Serpieri, frutto dell’americanizzazione della società italiana nel secolo scorso, quando la fine della seconda guerra mondiale mutò del tutto l’atteggiamento degli italiani nei confronti della lingua degli yankee, passando da pose xenofobe alle braccia spalancate dagli eventi bellici e dal cinema. Non ci resta che piangere? Forse, ma preferiamo riderne. C’è, infatti, un nuovo fenomeno (o trend) tutto italico che dice di più sul carattere nazionale: «Who doesn’t risica, doesn’t rosica», oppure «less bad», per «chi non risica non rosica» e «meno male». Perché se sei italiano vuoi ballare il rock ‘n roll, giocare a baseball e tradurre tutto in un gioco. Impazza su internet ma è una moda ovunque, si trasformano modi di dire o detti dialettali traducendoli alla lettera sdrammatizzando la lingua di Elisabetta I in puro divertimento. Un fenomeno spontaneo e regionale. I siciliani - che su internet registrano il numero più alto di siti che elencano detti dialettali, ben 2 milioni e 200mila – si traducono, per esempio, così: «beautiful mother» (bedda matri), «every little liver of fly makes substance» (ogni ficateddu i musca fa sustanza/ ogni cosa, anche il fegato di una mosca fa sostanza). E si gioca anche sui nomi, così che Forte Petrazza a Messina è ormai Fort Rock, mentre il quartiere catanese Librino è diventato little book.


Ma il fenomeno non è solo siciliano e il dileggio dell’inglese spopola nelle pagine web di tutta la penisola. Sara, dalla provincia di Frosinone, in una nota su facebook crea un dizionario ceccanese-inglese: «you told me turn me this donkey» (m'hai ditt giramu st'asn), «even the flea have a cold» (pur l puci tenn la tossa), per fare qualche esempio. Ancora su facebook, questa volta in Puglia, «proverbi anglo-gravinesi», è il titolo del topic dove si legge: «it's better a drunk to a fountain, that a cock-beat to a bitch» (Iè megghij na bvut a na funden, ca n'acceddet a na putten), o «The devil has put on in front of my eyes» (sè miis u diavhl nanz all'occhij). Nella freeforumzone di Leonardo si trovano, invece, esempi dal veneto: «Look sometimes» (Varda dee volte). E non poteva mancare «You're out like a balcony» (sei fuori come un balcone). Né il romanesco: “But go to die killed” (ma và a morì ammazzato), o «I don’t care of less» (non me ne po’ fregà de meno). Roba da fare rivoltare John Florio nella tomba, che già nel ‘500 tradusse i proverbi italiani – ma non per scherzo – in inglese, «molti detti e proverbi inglesi hanno attinto all’opera di Florio, perciò ai detti italiani, così che nei proverbi inglesi troviamo delle precise trasposizioni di quelli italiani». Ma tradurli alla lettera non è che un gioco, e chissà che non sia stato William Shakespeare in persona ad anticiparlo, quando prese dal siciliano «Tantu trafficu pi nenti» lo spunto per il suo «Much ado about nothing», ovvero «Molto rumore per nulla» (ambientato, infatti, a Messina). Così, anche il grande traduttore si presta: «I’m of the cat: sono di gatto. – propone Serpieri - Espressione usata a Firenze per dire che si è nervosi».

Fenomeno che dice molto sulla nostra identità, ancora così regionalizzata, frutto di un passato fatto di frammentazione, perciò ben lontano dai francesi, è chiaro. Ma attenzione, regione per regione i detti cambiano - non sempre -, e le traduzioni pure, ma il fenomeno è uguale dappertutto: è nato in italì, non ci sta nothing to do’.

Manuela Modica

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