sábado, 20 de marzo de 2010

Khoudary: "Colleziono il passato per dare a Gaza un futuro"

Jawdat Khoudary interrompe spesso il discorso, gli occhi semichiusi. Quando le palpebre si risollevano, l’occhio brilla e la frase, finalmente matura, fonde in bocca: «La mia missione è mantenere la speranza che un futuro meraviglioso sia possibile a Gaza». Offre un mandarino del suo giardino, prende un’altra sigaretta, sprofonda il suo corpaccione nel divano e continua la storia della sua vita, la storia di Gaza. Ne è ispirato, letteralmente: le vetrinette di legno scuro del salotto orientale rigurgitano di oggetti che testimoniano la ricchezza del patrimonio sei volte millenario di Gaza, che lui da vent’anni ritrova e colleziona: «Siamo una città e una civiltà molto antiche, ma tutti gli occupanti - egiziani, turchi, britannici, israeliani, per non parlare dei più antichi - hanno saccheggiato la nostra eredità storica».

A cinquant’anni Jawdat Khoudary è un uomo ricco - forse il primo impresario edile e appaltatore di lavori pubblici in Palestina - ma in lui c’è dell’altro: una passione febbrile per far risorgere dal passato lo splendore culturale della sua terra natia. «La mia più grande preoccupazione è che la nuova generazione è isolata, mentalmente e geograficamente, dal resto del mondo. Io devo aiutarla a ritrovare le sue radici».

È un innamorato pazzo, un esteta e al tempo stesso un astuto uomo d’affari, con amici che colma di doni e dei quali sa servirsi. Anis Nacrour, un diplomatico francese, ex consigliere per la cooperazione culturale a Gerusalemme, lo conosce bene: «Jawdat è un mecenate che sa far fruttare la sua fortuna, lavora duro e assume rischi. Ha saputo costruirsi buone entrature con Hamas e con l’Autorità palestinese, con gli israeliani e con gli americani». E di buone relazioni occorre averne, quando lo scopo della vita è salvare il passato archeologico di un territorio alla deriva, governato con pugno di ferro da Hamas e strangolato economicamente da Israele.

Tutto comincia nel 1986 con il ritrovamento, in mezzo ai calcinacci, di un medaglione omayyade che è diventato il suo talismano. Con un amico, Jawdat crea una società di ingegneria civile, la Saqq&Khoudary, oggi assai prospera. I cantieri si susseguono, il denaro arriva in fretta grazie ai contratti con il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo e con l’Agenzia Internazionale di Sviluppo degli Stati Uniti (Usaid) di cui diventa, curiosamente, l’unico fornitore.

Passeggiando lungo i viali del suo giardino lussureggiante, adorno di colonne romane e greche, capitelli, palmeti e limoneti, Khoudary racconta dei casuali ritrovamenti archeologici nei suoi cantieri edilizi. Anche il mare diventerà un’altra fonte inesauribile di vestigia, che i pescatori di Gaza tirano su nelle loro reti. Lui li incoraggia e la pesca alle anfore diventa miracolosa.

Khoudary possiede ormai un tesoro di oggetti che risalgono all’epoca fenicia, assira, persiana, greca, romana, bizantina, islamica. Ma sarebbe rimasto un collezionista privato, di quelli che le sovrintendenze accusano di fare man bassa del patrimonio nazionale, senza un incontro. Che ebbe luogo nel 1996, a Gaza. Padre Jean-Baptiste Humbert, domenicano e archeologo, è professore alla Scuola Biblica di Gerusalemme. Nulla hanno in comune, il collezionista bulimico e lo scienziato erudito, tranne una passione: salvare quello che si può del patrimonio archeologico di Gaza. Dalla loro collaborazione nasceranno una mostra a Ginevra, nel 2007, e un Museo privato a Gaza l’anno dopo.

La mostra ginevrina è stata un successo ma l’ambizioso progetto di creare un Museo Nazionale a Gaza è congelato: il blocco israeliano, le rivalità tra Hamas e Fatah, l’astio del Servizio antichità dell’Autorità palestinese impediscono il ritorno delle opere. La città di Ginevra ha accettato di custodirle fino a quando non ci saranno tutte le condizioni perché la statua di Afrodite di marmo bianco, il gioiello della collezione Khoudary, possa ritornare sulla sponda del Mediterraneo. Aspettando quel giorno, Jawdat si dedica ai suoi affari e al suo museo, dove i bambini di Gaza imparano l’orgoglio di essere gli eredi di una delle più ricche culture del bacino mediterraneo.

Sulla riva del mare, a poca distanza dal campo profughi di Ash Shati e del confine con Israele, Al Math’haf (il museo, in arabo) fa parte di un complesso che comprende un ristorante panoramico e una sala conferenze. Tra qualche mese, grazie al cemento introdotto a caro prezzo lungo i tunnel del contrabbando scavati sotto la frontiera egiziana, un albergo di 36 stanze sarà pronto per accogliere una improbabile clientela... «A volte - dice pensoso Jawdat Khoudary - mi dico che sono pazzo a fare investimenti del genere, poi mi convinco che è una scommessa sul futuro di Gaza». La fortuna e una finezza tutta orientale nel trattare le persone l’hanno sempre aiutato. Ha davvero costruito una moschea per Hamas come prezzo per la sua libertà, come insinua un diplomatico britannico? È il volume dei suoi interessi finanziari in Palestina a spiegare la facilità con cui può entrare e uscire da Gaza?

La Striscia è diventata un’immensa prigione a cielo aperto, dove un milione e 400 mila palestinesi vivono in condizioni spesso miserabili. «Jawdat Khoudary - nota Jean-Yves Marin, direttore del Museo di Arte e Storia della città di Ginevra - ha capito che la costruzione dell’identità di un popolo passa attraverso un museo». Jawdat Khoudary resta a Gaza con la moglie e il figlio più piccolo per inseguire il suo sogno e dimostrare che, nell’avversità, Gaza resta in piedi di fronte al mare.

LAURENT ZECCHINI

No hay comentarios: