viernes, 13 de febrero de 2009

Una penna grottesca e kafkiana per il povero Benjamin Button

Una penna grottesca e kafkiana per il povero Benjamin Buttondi Sara Antonelli
Cosa avrà spinto un regista «tosto» come David Fincher a cimentarsi con questo straordinario racconto di Fitzgerald? La risposta la troviamo anche in questa straordinaria edizione illustrata edita da Donzelli... Quando nel 1922 pubblica Il curioso caso di Benjamin Button, Francis Scott Fitzgerald è ancora un giovane e promettente scrittore. Oltre ai Racconti dell'età del Jazz – di cui fa parte anche Benjamin Button - ha già firmato Di qua dal Paradiso (1920) e sta per accingersi al romanzo che l'avrebbe consacrato agli occhi della critica, Il Grande Gatsby (1926). Oltre a ragioni filologiche, torniamo a rileggere Benjamin Button non solo per chiederci cosa avrà spinto il regista dei feroci Seven e Fight Club a misurarsi con le atmosfere rarefatte dell'età del jazz, ma per l'intrinseca ricchezza di un racconto che oggi possiamo apprezzare anche in un'edizione rivelatrice come quella illustrata da Calef Brown, appena uscita per Donzelli. Fin dalla copertina, che ritrae un uomo uomo calvo e accigliato, le cui gambe e barba lunghissime fuoriescono goffamente da una carrozzina, questo esile volumetto suggerisce magistralmente l'originale combinazione di toni, il malinconico e il grottesco, che caratterizza il racconto. Il resto delle tavole - con qui colori sgargianti, la profusione di oggetti sospesi in aria, l’attenzione ossessiva e ripetuta al dettaglio, anche anatomico, e, infine, la predilezione per i piani inclinati – ne connota invece l'assurdità di una trama segnata da un equilibrio improbabile come un quadro di Marc Chagall, ma graffiante come un racconto di Mark Twain.Dal suo predecessore più diretto, Fitzgerald trae non solo lo spunto narrativo dell'uomo che ringiovanisce invecchiando, ma specialmente l’abilità di sfruttare in rapida successione una manciata di trucchetti apparentemente «facili», quali lo scambio di destini, l’uso di maschere e camuffamenti e l'alternanza di episodi paradossali e inspiegabili. A organizzare tanta effervescenza troviamo, in Fitzgerald, una narrazione misurata che consente ai lettori di scivolare indisturbati da un’epoca all'altra semplicemente inseguendo le orme rovesciate di un personaggio asincrono, ovvero di chi è costantemente fuori luogo e fuori tempo (balla benissimo, ma impara a farlo nel momento sbagliato), e per questo ragione invariabilmente impegnato a non deludere le attese gli altri. E così, pur essendo un personaggio votato all'azione, il racconto ci presenta un Benjamin Button sempre colto nello sforzo di convincere, spiegare, negoziare e infine adattarsi - in verità sempre con successo - ai desideri di chi gli sta accanto. Nonostante ciò, nonostante dia prova di essere malleabile e plastico come lo Zelig di Woody Allen, egli resta tuttavia incorreggibilmente diverso.QUASI KAFKAMaterializzando l’irruzione metafisica, quasi kafkiana, della diversità in una comunità apparentemente virtuosa e compatta, Benjamin Button è una parabola sul conformismo (mancato) e sul destino «curioso» di chi, come Dorian Gray, si guarda allo specchio per trovarvi riflesso un uomo ogni volta più giovane, ma sempre straniero. Diversamente da quel che lascerebbe intendere il titolo, però, Benjamin Button non è una curiosità da baraccone, bensì la biografia di un mostro capace di evocare paure ancestrali. È sia il neonato nero che l’aristocrazia del sud statunitense teme sempre di trovarsi colpevolmente a partorire, sia lo straniero per eccellenza: l’ebreo errante, vecchio e solo; quello che seduce surrettiziamente la vergine innocente e che dimostra un inspiegabile fiuto per gli affari; il beniamino del signore al contempo l’eterno rinnegato. Si può essere più tragici e sradicati di Benjamin Button?
di Sara Antonelli

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