martes, 24 de marzo de 2009

Educhiamo i bambini a essere liberi (anche dalla pubblicità)

Un aereo in partenza per gli Stati Uniti, il computer sempre acceso, un’intervista epistolare fatta di parole precise. Strano tipo di rivoluzionario, il fiorentino Paolo Landi.

Creativo al centro della piramide Benetton, laurea con Mario Luzi, Landi è tra i più lucidi critici dei meccanismi pubblicitari. Nella guerra combattuta sotto il sole nero della competitività, Landi propone una terza via. Tra industrie e marchi concorrenti, c’è un filo di umanità che tenta di preservare. È quello delle intelligenze ingrassate davanti al filtro dell’esperienza virtuale, dei bambini trasformati in obbiettivi di mercato, lo stesso che faceva di ciò che eravamo, un’irripetibile esperienza di scoperta.Accadeva quando della televisione non sapevamo nulla. Quella di Landi da anni è in soffitta. Ne La pubblicità non è una cosa per bambini, (La scuola), il professore del Politecnico di Milano traccia un ritratto senza sconti. Le soluzioni semplici, quando il contesto è disgregato, latitano.Nella scuola steineriana di suo figlio, la tv è bandita...«Una madre mi ha raccontato che non manda il figlio al parco per paura di pedofili e drogati. Preferisce il centro commerciale. Mi pare sia urgente domandarsi che tipo di bambini stiamo crescendo, che direzione stiamo dando al loro futuro. Più che all’omologazione, qui bisogna attrezzarsi per sfuggire all’idiozia che ci assedia».Fin dagli anni ’50 i bambini sono stati considerati come essenziale veicolo di messaggi pubblicitari. Vere e proprie aree da fertilizzare con nuovi prodotti, per vedere a quali mutazioni potessero giungere.«L’inquinamento delle coscienze non tiene conto della psicologia umana che reagisce ad ogni eccesso con azioni uguali e contrarie. I consumatori cominciano a non poterne più di donne nude e bambini usati per vendere l’automobile al papà. Siamo ormai perfettamente alfabetizzati alla lingua del consumo. La pubblicità che pretende di indicare nuovi comportamenti, è in ritardo sull’evoluzione della società».Consumare è l’imperativo sul quale si basa la nostra società. Fin da bambini si assorbe una sola regola: «Chi perde è perduto». Che impatto ha avuto e continua ad avere una simile condizione d’ingaggio?«La competitività mi pare una nuova religione fondamentalista. E il paradosso è che, ad emergere, alla fine, sono quelli che non ne hanno mai fatto il loro dogma. In un mondo dove tutti sembrano essere quello che consumano, vincerà chi punterà su se stesso invece che sulla sua immagine. E le intelligenze, anche quelle timide, se sono vere si rivelano. Sono quelle allenate alla competizione sterile a mostrare la corda, la frustrazione, la stanchezza. Certi “vincenti” sembrano prigionieri di un ruolo e mostrano tutta la loro malinconica fragilità».La pubblicità si camuffa. I territori si allargano. I confini si dilatano. C’è una guerra. Quale rivoluzione possibile, per salvare generazioni condannate in partenza?«C’è un’infanzia che deve essere lasciata stare, bambini che devono restare tali fino a 14 anni e adulti che possono misurarsi col denaro e il consumo. Nel migliore dei mondi, i bambini restano bambini e gli adulti si comportano da adulti. Nella sfera dei bisogni indotti, resiste uno spazio di azione intelligente che non relega i consumatori nel ruolo di greggi pilotate. La rivoluzione è una cosa semplice, basta dare ad ogni cosa il suo tempo».Da Carosello alle televendite, in tv è passata la nostra storia recente...«È solo una fetta molto piccola di umanità, a meno che non si voglia ricondurre tutto alla fenomenologia di Mike Bongiorno. Berlusconi ci ha ricordato che se 15 milioni di italiani vedono Sanremo, ce ne sono altri 45 che non lo guardano. Fuori dalla tv c’è un mondo da scoprire. In futuro l’offerta sarà talmente ampia che perderà la centralità che sembra avere oggi».La discrepanza tra desideri e mezzi, in una società che ha elevato l’iperconsumo a religione unica, produce infelicità. È parodistico disegnare un futuro fatto di depressione generalizzata?«Credo si avvicini alla realtà. Il paradosso della società iperconsumista è che sono i poveri a cedere di più alle lusinghe del consumo. Faticano a pagare la bolletta ma non rinunciano a Sky. Sono preda dell’orrore del vuoto e tendono a riempirlo di merci. Una produzione di frustrazione e infelicità».Lei sintetizza lo sviluppo economico del futuro secondo tre direttrici: responsabilità, sostenibilità, solidarietà. Cercare una politica che riduca la pressione al consumo rappresenta l’ultima scialuppa?«Sarebbe un importante primo passo. Per ridare forza al circolo virtuoso della domanda e dell’offerta, bisogna tornare a dare valore alle cose. Troppa pubblicità non comunica nulla. La bulimia di merci provoca il rigetto».La deriva culturale molto deve all’approccio consumistico. «Se si aspira al sapere - suggerisce - bisogna liberarlo dagli scaffali del supermercato». Non teme le diano dello snob?«Niente snobismi ma, soprattutto, niente retorica. Anche il sapere, come l’infanzia, se diventa merce perde il suo valore».

Malcom Pagani

No hay comentarios: