lunes, 29 de diciembre de 2008

E' morto il teorico dello scontro di civiltà

Si è spento alla vigilia di Natale il filosofo e politico Samuel P. Huntington

Un conservatore che lavorò con carter: la minaccia dell'Islam, l'invasione ispanica. E gli storici si divisero Si è spento a 81 anni Samuel P. Huntington, lo storico e filosofo politico autore de Lo scontro delle civiltà, che ebbe un violento impatto sulla cultura, la storiografia e la politica dell'ultimo decennio. «Il suo cuore ha ceduto alle 18.30 della vigilia di Natale», ha dichiarato in lacrime al Corriere Beth Baiter, la sua segretaria, al telefono da Boston. «Era con lui tutta la famiglia. Negli ultimi mesi aveva sofferto molto. Su richiesta dei suoi congiunti, abbiamo ritardato la notizia». L'Università di Harvard, di cui Samuel Huntington aveva diretto il Centro di affari internazionali, è in lutto. Tra le condoglianze, quelle della Casa Bianca, dove il filosofo fu coordinatore del Consiglio della sicurezza nazionale del presidente Jimmy Carter nel '77 e '78, e dell'entourage di Barak Obama, che frequentò un suo corso prima della laurea. Lo studioso divenne una celebrità internazionale nel '93 alla prima pubblicazione di The Clash of Civilizations? (con il punto interrogativo), riveduto per la più ampia e nota edizione del '96 (in Italia è stato tradotto da Garzanti con il titolo Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale). In contrapposizione a quello di Francis Fukuyama, La fine della storia e l'ultimo uomo, secondo cui il XX secolo era ormai sfociato nel trionfo della democrazia, il polemico libro di Huntington sostenne che dai conflitti tra gli Stati sovrani il mondo sarebbe passato in fretta a quello tra le culture organizzate. In particolare, il filosofo politico richiamò l'Occidente all'obbligo di rafforzarsi al suo interno, sul piano culturale e religioso, per rispondere alla sfida dell'Islam. Una tesi che suscitò una tempesta e che gli costò l'accusa, mossagli anche dal pensatore palestinese Edward Said, scomparso nel 2003, di fomentare le guerre di religione.
Nel mondo politico e accademico, Huntington tuttavia era celebre da tempo. Aveva fatto irruzione sulla scena Usa nel '57 a soli trent'anni con The Soldier and the State («Il soldato e lo Stato») sui difficili rapporti tra il governo civile e i militari, un libro ispiratogli dallo studio dei colpi di Stato. All'inizio della guerra del Vietnam si era inoltre imposto all'attenzione del Pentagono con la sua proposta di concentrare la popolazione vietnamita nei villaggi per isolare i guerriglieri comunisti vietcong. E nel '68 aveva dato alle stampe Political Order in Changing Societies («Ordine politico nelle società in cambiamento»), affermando che i progressi economici e sociali nei Paesi ex coloniali non portano necessariamente alla democrazia. Un'anticipazione delle controversie a venire: tra l'altro, nel libro Huntington affermò che il Sud Africa era «una società soddisfatta», nonostante l'apartheid. Considerato un maestro del pensiero conservatore, Samuel Huntington venne invitato in Brasile dal governo Medici nel '72 per tracciarne un futuro democratico, futuro realizzato poi nell'85. Il filosofo politico si pronunciò subito per una graduale liberalizzazione del Paese, di cui rivendicò il merito nell'88. Ma la sua esperienza alla Casa Bianca sotto Carter, un democratico che ammirava le sue analisi, concluse i suoi interventi nella politica quotidiana: «Io posso avere dato un modesto contributo all'America — disse Huntington — ma il mio ambiente naturale è l'università». Un ambiente dove nel frattempo i liberal avevano deciso di regolare i conti con lui. Nominato due volte all'Accademia delle scienze negli anni Ottanta, lo storico fu sempre bocciato su iniziativa di Serge Lang, uno scienziato che gli rimproverava di appoggiare l'apartheid, oltre che di seguire «metodi antiscientifici » nelle ricerche. Dei suoi ultimi libri, il più discusso fu Who are We? The Challenge to America's Identity ( La nuova America. Le sfide della società multiculturale, Garzanti) sul problema dell'immigrazione, un libro del 2004, semiprofetico come Lo scontro delle civiltà.
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Huntington vi denunciò «l'invasione ispanica», ossia dall'America Latina, che minaccia, scrisse, di dividere in due la nazione, culturalmente e religiosamente. Ancora una volta fu polemica, quando coniò il termine «The Davos man» (L'uomo di Davos) contro l'élite del World global forum che si riunisce ogni anno in Svizzera «per i propri interessi». Ma la storia lo giustificò di nuovo: l'immigrazione è oggi uno dei massimi problemi dei Paesi occidentali, Europa in testa, a cui Huntington rimproverò più volte, soprattutto di fronte all'Islam, un'inspiegabile debolezza nella difesa dei propri valori. Sostenitori e critici non ricordano lo studioso come un uomo facile. Fu brillante fin dall'adolescenza: si laureò a Yale a soli 18 anni, si specializzò in storia a Chicago un biennio più tardi, e incominciò a insegnare a Harvard a 23 anni, uno dei più giovani docenti. E fu una star mediatica, opinionista per i maggiori quotidiani e le maggiori tv, fondatore della rivista Foreign Affairs. Huntington non sembrò mai nutrire dubbi, ma di recente si mostrò più disposto a rivisitare il proprio lavoro. In un'intervista al Corriere, in occasione di un viaggio in Italia, parlando de Lo scontro delle civiltà, smentì che la civiltà occidentale sia superiore a quella islamica, e che quest'ultima rimarrà sempre una teocrazia: «Ci sono stati momenti nella storia in cui la civiltà islamica fu quella dominante. E nessuna civiltà è costituzionalmente incapace di raggiungere il benessere e la democrazia». Sorprendentemente lo storico aggiunse che occorre aprire «al più presto un dialogo costruttivo con l'Iran e con i suoi alleati islamici », e liquidò l'antiamericanismo dovuto alla guerra dell'Iraq come «un fenomeno passeggero »: a suo giudizio, la strage delle Torri Gemelle del 2001 aveva reso «tutti americani ». Si disse persino d'accordo con Fukuyama sul tramonto delle ideologie «ma non della storia, che continuerà il suo cammino».
Ennio Caretto28 dicembre 2008

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